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 Oggetto del messaggio: I misteri delle Cattedrali
MessaggioInviato: gio feb 28, 2008 01:48 
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IL MISTERO DELLE CATTEDRALI

E l'interpretazione esoterica dei simboli ermetici della Grande Opera

con tre prefazioni di

EUGÈNE CANSELIET, F.C.H.

PREFAZIONI

PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE


Per il discepolo è un compito ingrato e difficile presentare una
opera scrìtta dal proprio Maestro. Perciò, la mia intenzione non è quella d'analizzare in quest'occasione II Mistero delle Cattedrali, né di sottolineare il bello stile ed il profondo insegnamento. Confesso umilmente la mia incapacità e preferisco lasciare ai lettori il compito d'apprezzare il libro, ed ai Fratelli di Heliopolis la gioia di raccogliere
questa sintesi, esposta così magistralmente da uno di loro. Il tempo e la verità faranno il resto.
Già da molto tempo, ormai, l'Autore di questo libro non è più tra noi. L'uomo si è eclissato. Riemerge soltanto il suo ricordo. Provo una certa pena nell'evocare l'immagine di questo Maestro laborioso e sapiente, al quale devo tutto, deplorando; ahimè! la sua precoce dipartita. I suoi molti amici, fratelli sconosciuti che attendevano da lui la soluzione del misterioso Verbum dimissum, lo rimpiangeranno insieme a me.
Ma poteva egli, giunto al culmine della Conoscenza, rifiutare di obbedire agli ordini del Destino? — Nessuno è profeta in patria —
Questo vecchio proverbio spiega, forse, la ragione occulta dello sconvolgimento provocato, nella vita solitaria e studiosa del filosofo, dalla scintilla della Rivelazione. Per effetto di questa fiamma divina, il vecchio uomo si è completamente consunto. Il nome, la famiglia, la patria, tutte le illusioni e tutti gli errori, tutte le vanità sono ridotte in polvere. Ma da questa cenere, come la fenice dei poeti, nasce una
nuova personalità. Così almeno pretende la Tradizione filosofale.
Il Mio Maestro lo sapeva. E sparì quando giunse l'ora fatidica,
quando il Segno fu compiuto. Chi oserebbe sottrarsi alla Legge? —
Anch'io, nonostante lo struggimento provocato da una separazione
dolorosa, ma inevitabile, se mi capitasse il fortunato avvenimento che
obbligò l'Adepto ad allontanarsi dagli orrori di questo mondo, non
mi comporterei in maniera diversa.
Fulcanelli non è più. Eppure il suo pensiero è rimasto, ardente
e vivo, chiuso per sempre in queste pagine come in un santuario, e
questa è la nostra unica consolazione.
Grazie a lui, la Cattedrale gotica ci confida il suo segreto. E non
senza sorpresa né emozione apprendiamo in che modo fu tagliata, dai
nostri antenati, la prima pietra delle fondazioni, gemma abbagliante,
più preziosa dello stesso oro, e sulla quale Gesù fondò la sua Chiesa.
Tutta la Verità, tutta la Filosofia, tutta la Religione si basano su
quest'unica Pietra sacra. Molti uomini, pieni di presunzione, si credono
capaci di fabbricarla; eppure, quanto sono rari gli eletti abbastanza
semplici, abbastanza sapienti, abbastanza abili da riuscirvi!

Ma ciò non ha molta importanza. Ci basti sapere che le meraviglie del nostro medioevo contengono la stessa verità positiva, gli stessi
fondamenti scientifici delle piramidi d'Egitto, dei templi greci, delle
Catacombe romane e delle basiliche bizantine.
Tale è, grosso modo, la portata del libro di Fulcanelli.
Gli ermetisti, — o almeno quelli che sono degni di questo nome,
— scopriranno anche dell'altro. Si dice che la luce nasce dallo scontro
di idee differenti: essi potranno riconoscere che qui, nel confronto tra
il Libro e l'Edificio, si libera lo Spirito e la Lettera muore. Fulcanelli
ha fatto per loro il primo sforzo; tocca ora agli ermetisti fare l'ultimo.
La strada che resta da percorrere è breve. C'è ancora bisogno di individuarla con, esattezza e di non muoversi senza sapere dove si va.
Cosa si vuole di più?

Io so, non per averlo scoperto da solo, ma perché l'Autore stesso me ne diede la certezza più di dieci anni ja, che la chiave dell'arcano
più grande è data, senza alcuna finzione, da una delle figure che illustrano quest'opera. E questa chiave consiste unicamente in un colore,
manifesto all'artista già dall'inizio del lavoro. Nessun Filosofo, a
quanto mi è dato sapere, ha colto l'importanza di questo punto essenziale. Rendendolo noto, obbedisco alle ultime volontà di Fulcanelli e
sono in regola con la mia coscienza.

Ed ora, mi sia permesso, in nome dei Fratelli di Heliopolis e mio,
di ringraziare caldamente l'artista al quale il mio maestro affidò l'illustrazione del proprio lavoro. Infatti, grazie al talento sincero e minuzioso del pittore Julien Champagne, Il Mistero delle Cattedrali riveste
il proprio austero esoterismo d'un superbo mantello di disegni originali.

E. canseliet
F.C.H
Ottobre 1925

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 Oggetto del messaggio: Re: I misteri delle Cattedrali
MessaggioInviato: gio feb 28, 2008 01:49 
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PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

Quando Il Mistero delle Cattedrali fu scritto, nel 1922, Fulcanelli non aveva ricevuto ancora Il Dono di Dio, ma era così vicino all'Illuminazione suprema che ritenne necessario aspettare e mantenere l'incognito, del resto sempre conservato più ancora per inclinazione personale che per scrupolo d'una rigorosa obbedienza alla regola del segreto. In verità, dobbiamo ammettere che quest'uomo d'un'altra età, per il suo strano portamento, i suoi modi antiquati e le sue insolite occupazioni, attirava, senza volerlo, l'attenzione degli oziosi, dei curiosi e degli sciocchi; molto meno rumore, tuttavia, suscitò, un po' più tardi, la scomparsa totale della sua presenza fisica.
Così, non appena fu in ordine la prima parte dei suoi scritti, il Maestro manifestò il suo desiderio, - assoluto e senza appello, cioè che la sua vera entità restasse nell'ombra, e che sparisse la sua etichetta sociale, ormai definitivamente cambiata con lo pseudonimo voluto dalla Tradizione e da molto tempo familiare. Questo nome celebre è così solidamente fissato nella memoria fino alle future generazioni, che non è assolutamente possibile sostituirlo con un qualsiasi altro patronimico per quanto quest'ultimo possa sembrare ben fondato, o brillantissimo o il più auspicato.
Ci si deve, come minimo, persuadere che il padre d'un'opera di così eccelsa qualità, non lo abbandonò certo, una volta compiuto il suo lavoro, se non per delle ragioni strettamente pertinenti, se non imperiose, e maturate profondamente. Su di un piano diverso, tali ragioni diedero luogo alla rinuncia, che non ci si stanca d'ammirare, perché anche gli autori più distaccati dal mondo, scelti tra i migliori, si mostrano sempre sensibili alla gloriuzza che deriva dalla propria opera stampata.

Si deve aggiungere però, che il caso di Fulcanelli non assomiglia a nessun altro, nell'ambito delle Lettere del nostro tempo, perché proviene da una disciplina etica infinitamente superiore, secondo la quale il nuovo Adepto armonizza il suo destino con quello dei suoi rari predecessori, come lui apparsi alla loro epoca determinata, scaglionati su una strada immensa, simili a dei fari di salvezza e di misericordia. Filiazione senza macchia, che si mantiene prodigiosamente, perché senza sosta venga confermata, nella sua duplice manifestazione spirituale e scientifica, la Verità eterna, universale ed indivisibile. E come la maggioranza degli antichi Adepti, Fulcanelli, gettando alle ortiche del fosso la consunta spoglia del vecchio uomo, lasciò soltanto sul sentiero la traccia onomastica del proprio fantasma di cui l'altero biglietto da visita proclama la suprema aristocrazia.


* * *

Per coloro che posseggono qualche conoscenza dei libri alchimistici del passato è necessario basarsi su questo aforisma: l'insegnamento orale da maestro a discepolo è superiore a qualsiasi altro. È in questo modo che Fulcanelli ricevette l'iniziazione, così come noi l'abbiamo ricevuta da lui; dobbiamo però aggiungere, da parte nostra, che Ciliani ci aveva già spalancato la porta del labirinto, nella settimana incui apparve, nel 1915, la riedizione del suo opuscolo.

Nella nostra Introduzione alle Dodici Chiavi della Filosofia noi abbiamo ripetuto di proposito che Basilio Valentino fu l'iniziatore del nostro Maestro, e ciò perché ci fu data l'occasione di cambiare l'epiteto del vocabolo, cioè di sostituire - per amore di esattezza - l'aggettivo numerale primo al qualificativo vero che avevamo utilizzato prima, nella nostra Prefazione delle Dimore filosofali. A quell'epoca, noi ignoravamo la lettera così commovente che riportiamo qui sotto e che trae tutta la sua cattivante bellezza dallo slancio dell'entusiasmo, dal l'accento del fervore che infiamma improvvisamente lo scrittore, diventato anonimo a causa della raschiatura della firma, come lo è il destinatario per la mancanza d'indirizzo. Indubbiamente costui fu il maestro di Fulcanelli, il quale lasciò, tra le sue carte, la lettera rivelatrice, segnata in croce da due righe sporche di carbone, lungo la traccia della piegatura, per essere stata poi tanto tempo chiusa in un portafoglio, dove è stata lo stesso raggiunta dalla polvere impalpabile e grassa dell'enorme forno sempre in attività. Così l'autore del Mistero delle Cattedrali conservò per molti anni, come un talismano, la prova scritta del trionfo del suo vero iniziatore, prova che nulla più vieta di pubblicare oggi, soprattutto perché essa fornisce una idea potente e giusta del sublime ambito nel quale si situa la Grande Opera. Pensiamo che non ci sarà rimproverata la lunghezza della strana lettera da cui sarebbe certo un peccato eliminare anche una sola parola,

Mio caro amico,
Questa volta avete veramente ricevuto il Dono di Dio; è una grande Grazia, e per la prima volta, mi rendo conto di quanto sia raro questo favore. Infatti io credo che l'arcano, nel suo abisso insondabile di semplicità, è introvabile con l'aiuto del solo raziocino per quanto esso possa essere sottile ed esercitato. Finalmente siete in possesso del Tesoro dei Tesori, rendiamo grazie alla Luce Divina che ve ne ha reso partecipe. Del resto, l'avete meritato giustamente con la vostra incrollabile fede nella Verità, la costanza degli sforzi, la perseveranza nel sacrifìcio, ed anche, non dimentichiamolo,... con le vostre opere buone.

Quando mia moglie m'ha annunciato la bella notizia, sono stato sbalordito dalla gioiosa sorpresa e non stavo più in me dalla felicità. A tal punto che mi son detto: purché non paghiamo quest'ora di euforia con qualche cosa di terribile domani. Ma, sebbene informato sommariamente della cosa, ho creduto di capire, e ciò conferma la mia certezza, che il fuoco viene spento soltanto quando l'Opera è compiuta e tutta la massa tintoria impregna il vetro che, di decantazione in decantazione, resta alla fine completamente saturo e diventa luminoso come il sole.
Avete spinto la vostra generosità fino ad associarci a questa alta ed occulta conoscenza che vi appartiene di diritto e che è totalmente personale. Meglio di ogni altro ne avvertiamo tutto il peso e meglio di ogni altro siamo capaci di rimanervi eternamente riconoscenti. Sapete bene che le più belle frasi, le più eloquenti proteste non valgono quanto la commovente semplicità di queste parole: voi siete buono, ed è proprio per questa grande virtù che Dio ha posto sulla vostra fronte il diadema della vera regalità. Egli sa che farete un nobile uso dello scettro e dell'inestimabile appannaggio che comporta. Da molto tempo ormai Vi conosciamo come il mantello blu dei vostri amici nel bisogno; il mantello caritatevole si è improvvisamente allargato perché, ora, tutto l'azzurro del cielo, ed il suo grande sole coprono le vostre nobili spalle. Possiate gioire a lungo di questa grande e rara felicità per la gioia e la consolazione dei vostri amici, ed anche dei vostri nemici, perché la disgrazia cancella tutto ed ormai disponete della bacchetta magica che compie tutti i miracoli.

Mia moglie, con quell'inesplicabile intuizione delle persone sensibili, aveva fatto un sogno molto strano. Aveva visto un uomo avvolto in tutti i colori dell'iride ed innalzato fino al sole. La spiegazione non si è fatta attendere. Quale Meraviglia! Che bella e vittoriosa risposta alla mia lettera piena di dialettica e - teoricamente - esatta, ma quanto lontana, ancora, dal Vero, dal Reale! Ah! si potrebbe quasi affermare che chi ha salutato la stella del mattino ha perso per sempre l'uso della vista e della ragione, perché è affascinato da questa falsa luce e precipitato nelle tenebre... A meno che, come è stato per voi, un gran colpo di fortuna non lo allontani bruscamente dall'orlo del precipizio.
Non vedo l'ora di rivedervi, caro amico mio, di riascoltare il racconto delle ultime ore d'angoscia e di trionfo. Ma state pur certo, tanta è la gioia che stiamo provando e tale è la gratitudine che è nel nostro cuore, che non riuscirei mai ad esprimermi a parole. Alleluia!
Vi abbraccio e mi felicito con voi
Il vostro vecchio amico...

Chi sa compiere l'Opera con il solo mercurio ha trovato la perfezione, - cioè è stato illuminato ed ha compiuto il Magistero.
Forse, un passaggio avrà colpito, sorpreso o sconcertato il lettore attento e già in dimestichezza con i dati principali del problema ermetico. Si tratta di quel passaggio in cui l'intimo e saggio autore della missiva esclama:
"Ah! si potrebbe quasi affermare che chi ha salutato la stella del mattino ha perso per sempre l'uso della vista e della ragione, perché è affascinato da questa falsa luce ed è precipitato nelle tenebre".
Questa frase sembra in contraddizione con quello che abbiamo affermato, più di vent'anni fa, in uno studio sulla Toison d'Or1 (1 Vedi Alchimie. J.J. Pauvert editore, p. 137), e cioè che la stella è il grande segno dell'Opera; ch'essa suggella la materia filosofale; che essa fa sapere all'alchimista d'aver trovato non la luce dei pazzi ma quella dei saggi; che essa consacra la saggezza; e che è chiamata stella del mattino.
Il lettore avrà notato che precisavamo brevemente che l'astro ermetico è da principio ammirato nello specchio dell'arte o mercurio prima di mostrarsi sotto il cielo chimico, ch'esso rischiara in modo assai modesto?
Egualmente ligio ai doveri di carità e d'osservanza del segreto, anche se questo poteva farci passare per dei ferventi amanti del paradosso, avremmo potuto insistere già allora sul meraviglioso segreto e, a questo scopo, avremmo potuto ricopiare alcuni appunti scritti in un vecchio quaderno, dopo una delle dotte discussioni con Fulcanelli; queste discussioni, accompagnate da caffè freddo e zuccherato, erano la nostra maggiore delizia al tempo della nostra adolescenza, quand'eravamo assidui e studiosi, avidi di questo incomparabile sapere.

La nostra stella è unica, eppure è doppia. Sappiate distinguere la sua impronta reale dalla sua immagine, e noterete ch'essa brilla con più intensità alla luce del giorno che nelle tenebre della notte.
Dichiarazione, questa, che convalida e completa quella di Basilio Valentino (Douze Clefs) non meno categorica e solenne:
"Gli Dei hanno accordato agli uomini due stelle per condurli verso la grande Sapienza; osservale, o uomo! e segui con costanza il loro chiarore, perché è in esso che si trova la Saggezza".
E si tratta certo delle due stelle rappresentate in una delle piccole illustrazioni alchemiche del convento francescano di Cimiez, accompagnata da una leggenda in latino che riguarda la virtù salvatrice inerente l'irraggiamento notturno delle stelle.
"Cum luce salutem; con la luce, la salvezza".
In ogni caso, anche se si possiede solo in minima parte il significato filosofico e se si prende la briga di meditare sulle già citate parole di Adepti incontestabili, si avrà la chiave con cui Ciliani apre la porta del tempio. Ma se ancora non si comprende, allora si rileggano le opere di Fulcanelli e non si vada a cercare altrove un insegnamento che nessun altro libro potrebbe fornire con altrettanta precisione.

Esistono, dunque, due stelle, che, nonostante la poca verosimiglianza, formano in realtà un'unica stella. Quella che brilla sulla Vergine mistica, - che è contemporaneamente nostra madre ed il mare ermetico1 (1 In francese mère (madre) e mer (mare) si pronunciano allo stesso modo e sono dello stesso genere. Quindi notre mère (nostra madre), secondo la cabala fonetica, ha il significato di "nostro mare" (N.d.T)) - annuncia il concepimento e non è altro che il riflesso dell'altra che precede il miracoloso avvento del Figlio. Perché se la Vergine celeste è chiamata anche "stella matutina", stella del mattino; se si può contemplare su di lei lo splendore d'un segno divino; se la riconoscenza per questa sorgente di grazie procura gioia al cuore dell'artista; non si tratta, però, che d'una semplice immagine riflessa dallo specchio della Saggezza. Questa stella visibile ma inafferrabile, malgrado la sua importanza ed il posto che occupa nelle opere di vari autori, attesta la realtà dell'altra, di quella che incorona alla nascita il Bimbo divino. San Crisostomo ci fa sapere che il segno che condusse i Magi alla grotta di Betlemme, prima di sparire, si posò sul capo del Salvatore e lo circondò d'un'apoteosi di luce.

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 Oggetto del messaggio: Re: I misteri delle Cattedrali
MessaggioInviato: gio feb 28, 2008 01:50 
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Insistiamo, e siamo certi che alcuni ce ne saranno riconoscenti: si tratta veramente d'un astro notturno la cui luce s'irraggia senza molto splendore al polo del cielo ermetico. E quindi ha poca importanza, senza lasciarsi ingannare dalle apparenze, che ci si informi sul cielo terrestre, di cui parla Venceslao Lavinius di Moravia e su cui insiste tanto Jacobus Tollius:
"Tu avrai compreso che cos'è il Cielo, di cui si parla nel mio piccolo libro, e per mezzo del quale sarà svelato il Cielo chimico.

Perché
Questo cielo è immenso e riveste le campagne di una luce color di porpora.
In esso sono stati individuati i suoi astri ed il suo sole".
È indispensabile meditare a fondo che il cielo e la terra, sebbene nel caos cosmico originale siano stati mescolati, non sono differenti ne in sostanza ne in essenza, ma lo diventano in qualità, in quantità ed in virtù. La terra alchemica, caotica, inerte e sterile, non contiene forse, nonostante ciò, il cielo filosofico? Sarebbe dunque impossibile per l'artista, imitatore della Natura e della Grande Opera divina, separare nel suo piccolo mondo, con l'aiuto del fuoco segreto e dello spirito universale, le parti cristalline, velenose e pure, dalle parti dense, oscure e grossolane? Ma questa separazione deve essere compiuta, essa consiste nell'estrarre la luce dalle tenebre e nel realizzare il lavoro del primo dei Grandi Giorni di Salomone. Mediante questa separazione, possiamo sapere che cos'è la terra filosofale e che cosa gli Adepti hanno chiamato cielo dei Saggi.

Filalete che, nel suo libro Entrée ouverte au Palais ferme du Roi, si è soffermato più degli altri sulla pratica dell'Opera, fa cenno della stella ermetica, e conclude con la magia cosmica della sua apparizione:
"È il miracolo del mondo, l'unione delle virtù superiori con quelle inferiori; per questa ragione l'Onnipotente l'ha indicata con un segno straordinario. I Saggi l'hanno visto in Oriente, ne sono rimasti sbalorditi e subito dopo hanno saputo che un Re purissimo era venuto al mondo.
Quando tu avrai visto la sua stella, seguila fino alla Culla; là vedrai il Bel Bambino".
In seguito l'Adepto rivela come si deve procedere:
"Si prendano quattro parti del nostro drago igneo, che nasconde nel suo ventre il nostro Acciaio magico, e nove parti della nostra Calamita; mescolale insieme per mezzo di un ardente Vulcano, fino a ridurle sotto forma d'acqua minerale, su cui galleggerà una schiuma che deve essere eliminata. Getta la crosta esterna, prendi il nocciolo, purgalo tre volte con il fuoco e con il sale, cosa che si farà facilmente se Saturno ha visto la propria immagine nello specchio di Marte".
Infine Filatele aggiunge:
"E l'Onnipotente imprime il suo regale sigillo a quest'Opera e, così facendo, l'adorna in modo del tutto particolare”.

***

In verità, la stella non è un segno speciale del travaglio della Grande Opera. La si può incontrare in numerosi composti archimici, in procedimenti particolari ed in operazioni spagiriche di minore importanza. E non di meno essa ha sempre lo stesso valore indicativo di trasformazione, parziale o totale, dei corpi sui quali si è formata. Un esempio tipico ci è fornito da Jean-Frédéric Helvetius, in questo passaggio del suo Veau d'Or (Vitulus Aureus), che traduciamo:
"Un orefice di La Haye (cui nomen est Grillus), discepolo assai esperto in alchimia, ma uomo assai povero secondo il carattere proprio di questa scienza, qualche anno fa1 (1 Verso il 1664, anno dell'edizione principe e introvabile del Vilulus Aurvus.), chiese al mio carissimo amico Jean-Gaspard Knôttner, tintore di stoffe, un po' di spirito di sale preparato in modo non volgare. A Knôttner che gli chiedeva se questo spirito di sale speciale sarebbe stato utilizzato o meno per i metalli, Gril rispose che era per i metalli; in seguito, egli versò questo spirito di sale su del piombo che aveva posto in un recipiente di vetro, normalmente utilizzato per le marmellate o altri alimenti. Dopo circa due settimane, apparve in superficie una stranissima e brillante Stella argentea, che sembrava eseguita col compasso da un abile artista. Per cui Gril, pieno d'una immensa gioia, ci annunciò d'aver visto la stella visibile dei Filosofi; su di essa probabilmente aveva letto qualcosa in Basilio (Valentino). Io e molti altri uomini onorati, guardavamo con estrema ammirazione questa stella affiorante sullo spirito di sale, mentre sul fondo, il piombo restava color cenere e gonfio come una spugna. Poi, dopo sette o nove giorni, la parte umida dello spirito di sale evaporò a causa dei grandi calori di quel mese di luglio, e la stella toccò il fondo posandosi sul piombo spugnoso e terroso. Infine, Gril coppellò su di un coccio la parte di piombo cinereo che portava aderente su di sé la stella, e ottenne da una libbra di questo piombo, dodici ance d'argento di coppello e da queste dodici once ricavò ancora due once d'oro eccellente".

Questa è la relazione di Helvetius. Noi la riferiamo soltanto per esemplificare la presenza del segno della stella in tutte le modificazioni interne dei corpi trattati filosoficamente. Però non vorremmo essere la causa di lavori infruttuosi e deludenti, intrapresi senza dubbio da qualche lettore entusiasta, basatosi sulla reputazione di Helvetius, sulla probità di testimoni oculari e, forse, anche sulla nostra costante cura di sincerità. Per questa ragione facciamo notare a coloro che vorrebbero rilevare il procedimento che in questo racconto mancano due dati fondamentali: la composizione chimica esatta dell'acido idrocloridrico e le operazioni preliminari effettuate sul metallo. Nessun chimico ci contraddirà se affermiamo che il piombo ordinario, qualunque esso sia, non assumerà mai l'aspetto di pietra pomice sottomettendolo a freddo all'azione dell'acido muriatico. Quindi per provocare la dilatazione del metallo sono necessarie parecchie operazioni preliminari: eliminare le scorie più grossolane e gli elementi perituri, per giungere poi, mediante la dovuta fermentazione, al rigonfiamento che procurerà quell'aspetto spugnoso, molle, che già manifesta una tendenza molto marcata per un profondo cambiamento delle proprietà specifiche.
Blaise de Vigenère e Nassagora, per esempio, sono d'accordo sull'opportunità d'una lunga cottura preliminare. Perché, se è vero che il piombo comune è morto, - perché ha patito la riduzione e perché, come dice Basilio Valentino, una grande fiamma divora un piccolo fuoco, - non è men vero che lo stesso metallo, nutrito con pazienza di sostanza ignea, si rianimerà, riprenderà poco per volta la sua attività spenta e da materia chimica inerte diventerà corpo filosofico vivente.

***

Ci si potrà stupire che abbiamo trattato con approfondimento un solo punto della Dottrina, tanto da dedicargli la maggior parte di questa prefazione, e proprio per questa ragione, temiamo d'aver oltrepassato i limiti entro i quali, in genere, si tengono le prefazioni. Si può facilmente notare, però, quant'era logico che trattassimo quest'argomento che introduce direttamente al testo di Fulcanelli. Già dall'inizio del suo libro, infatti, il nostro Maestro s'è lungamente soffermato sul ruolo capitale della Stella, sulla Teofania minerale che annuncia, con certezza, la tangibile spiegazione del gran segreto sepolto negli edifici religiosi. Ecco appunto qual è Il Mistero delle Cattedrali, titolo dell'opera di cui curiamo, - dopo l'edizione del 1926, di soli 300 esemplari, - una seconda edizione arricchita da tre disegni di Julien Champagne e da alcune note originali di Fulcanelli, raccolte e pubblicate tali e quali, senza nessuna aggiunta né il più piccolo cambiamento. Esse sono dedicate ad un angoscioso dilemma, che trattenne lungamente il Maestro alla sua scrivania, e sul quale diremo qualcosa a proposito delle Dimore Filosofali.

Insomma, se si dovesse giustificare il merito del Mistero delle Cattedrali, basterebbe segnalare che questo libro ha posto nuovamente in luce la cabala fonetica i cui principii e la cui applicazione erano caduti nel più totale oblio. Dopo questo insegnamento dettagliato e preciso, dopo le brevi considerazioni che abbiamo fatto a proposito del centauro, dell’uomo-cavallo di Plessis-Bourré, nel libro Due Dimore di alchimisti (Deux Logis alchimiques), non si dovrebbe più confondere la lingua matrice, l'energico idioma facilmente capito anche se mai parlato e, sempre secondo Cyrano Bergerac, l'istinto o la voce della natura con le trasposizioni, le inversioni, le sostituzioni e i calcoli astrusi quanto arbitrari della Kabbala ebrea. Ecco perché è necessario distinguere tra i due vocaboli cabala e Kabbala, per poterli usare a ragion veduta: il primo deriva da (parola greca) o dal latino caballus, cavallo; il secondo dall'ebreo kabbalah che significa tradizione. Inoltre non si dovrà cercare il pretesto, nei sensi figurati che vengono ampliati per analogia, per parlare di imbroglio, maneggio o intrigo, rifiutando così, alla parola cabala, l'uso che essa soltanto può giustificare e che Fulcanelli ha magistralmente confermato, ritrovando la chiave perduta della Gaia Scienza, della Lingua degli Dei o degli Uccelli. Gli stessi idiomi che Jonathan Swift, il singolare Decano di San Patrizio, conosceva a fondo e usava a suo piacimento, con profonda scienza e virtuosismo.

SAVIGNIES. agosto 1957

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 Oggetto del messaggio: Re: I misteri delle Cattedrali
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PREFAZIONE ALLA TERZA EDIZIONE

“Mieux vault vivre gros bureaux
Povre, qu’avoir est seigneur
Et pourrir soubz riches tombeaux!
Qu'avoir esté seigneur! Que dys?
Seigneur, las! et ne l'est il mais?
Selon les davitiques dit,
Son lieu ne congnoistras jamais”.
Francois Villon Le Testament
XXXVI e XXXVII


Era necessario, e soprattutto era un'elementare cura per Ìa salvezza della filosofia ermetica, che Il Mistero delle Cattedrali comparisse nuovamente. Tramite l'editore Jean-Jacques Pauvert, ecco pronta una nuova edizione, preparata con lo stile e l'accuratezza che già gli conosciamo e che, per il bene degli studiosi, soddisfa sempre la duplice preoccupazione di contenere, nel senso migliore di questo vocabolo, la perfezione dell'esecuzione ed il prezzo di vendita al lettore. Due condizioni, queste, intrinseche e fondamentali, ed assai apprezzate dall'esigente Verità che Jean-Jacques Pauvert ha voluto avvicinare maggiormente, illustrando la prima opera del Maestro con la fotografia perfetta di quelle sculture che prima erano presentate con i disegni di Julien Champagne. E così la precisione dell'emulsione fotografica, permettendo di confrontare le opere originali, proclama la coscienza e l'abilità di quell'eccellente artista che conobbe Fulcanelli nel 1905, cioè dieci anni prima che noi ricevessimo lo stesso inestimabile privilegio, tanto oneroso e troppo spesso invidiato.

***

L'alchimia per l'uomo molto probabilmente non è altro che la ricerca ed il risveglio della Vita segretamente assopitasi sotto il pesante involucro dell'essere e la grezza scorza delle cose, ricerca e risveglio derivanti da un certo stato d'animo molto prossimo alla grazia reale ed efficace. Sui due piani universali, dove siedono insieme la materia e lo spirito, il processo è assoluto e consiste in una permanente purificazione fino alla purificazione più completa.

A questo scopo niente è più utile, per quel che riguarda il modo d'operare, dell'apoftegma antico e così preciso nella sua imperativa concisione: Salve et coagula; dissolvi e coagula. La tecnica semplice e lineare, esige sincerità, decisione e pazienza, ed ha bisogno d'immaginazione, ahimè! ormai quasi totalmente scomparsa in un gran numero di persone, in questa nostra epoca dominata da una saturazione sterilizzante ed aggressiva. Sono pochi quelli che si dedicano all'idea vivente, all'immagine fruttuosa, al simbolo inseparabile da qualsiasi elaborazione filosofale o avventura poetica, aprendosi a poco a poco, in lento progresso, ad una luce più grande ed alla conoscenza.
Molti alchimisti hanno detto, in particolare la Turba attraverso le parole di Baleus, che "la madre ha pietà del proprio figlio, ma egli è molto duro nei suoi riguardi”. Il dramma familiare si svolge m modo positivo in seno al microcosmo alchimico-fisico, di modo che si può sperare, per il mondo terrestre e la sua umanità, che la Natura finalmente perdoni gli uomini e si adatti, nel miglior modo possibile, alle torture ch'essi le fanno continuamente subire.

***

Ma c'è dell'altro ben più grave: Mentre la Franc-Macomerie cerca sempre la parola perduta (verbum dimissum), la Chiesa universale (parola greca katholiké), che posside questo Verbo, lo sta abbandonando per abbracciare l'ecumenismo del diavolo. E niente favorisce di più quest'errore inespiabile di un clero, troppo spesso ignorante, che obbedisce tremando all'impulso errato, ma cosìddetto progressista suggerito dalle forze occulte che mirano soltanto a distruggere l'opera di Pietro. Il rituale magico della messa latina, profondamente sconvolto, ha perso ogni valore, ed ora è perfettamente intonato con il cappello floscio ed il completo scuro adottato da alcuni preti, felicissimi di questo travestimento che sembra una promettente tappa verso l'abro gazione del celibato filosofico...

In seguito a questa politica d'incessante abbandono, s'installa la funesta eresia accompagnata dalla raziocinante vanità ed il profondo disprezzo delle leggi più misteriose. Tra quest'ultime, l'ineluttabile necessità della putrefazione feconda, per qualsiasi materia, affinché la vita possa continuare sotto la fallace apparenza del nulla e della morte. Conoscendo la fase transitoria, tenebrosa e segreta, che spalanca delle straordinarie possibilità all'alchimia operativa, non è forse terribile che la Chiesa acconsenta, ormai, a quest'atroce cremazione che una volta era senz'altro respinta?
Eppure quale immenso orizzonte spalanca la parabola del grano affidato alla terra, riportata da San Giovanni:
"In verità, in verità vi dico, se il granello di frumento, cadendo a terra, non muore, rimane solo; ma se muore, porta molti frutti" (XII, 24).
E similmente, dello stesso discepolo prediletto, quest'altra preziosa indicazione del Maestro, a proposito di Lazzaro, sul fatto che la putrefazione del corpo non sta a significare la totale abolizione della vita:
“Gesù dice: Levate la pietra. Marta, sorella del morto, gli dice: Signore, ormai manda cattivo odore; perché è là sotto da quattro giorni. Gesù gli dice: Non ti ho forse detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?" (XI, 39, 40).

Dimenticando la Verità ermetica che assicurò la sua fondazione, la Chiesa, essendole stato chiesto il suo parere circa l'incinerazione dei cadaveri, prende in prestito, senza alcuno sforzo, la sua pessima giustificazione alla scienza del bene e del male, secondo la quale la decomposizione dei corpi, nei cimiteri sempre più numerosi, sarebbe una minaccia d'infezione e d'epidemia per gli abitanti che respirano l'aria dei dintorni. Argomento assai specioso, che fa per lo meno sorridere, soprattutto quando si sa che fu proposto, molto seriamente, più d'un secolo fa, mentre era fiorente il gretto positivismo dei Comte e dei Littré! Ed anche commovente sollecitudine che, in questa nostra epoca benedetta, non fu usata al tempo di due ecatombi, grandiose per il numero dei morti e per la durata, ed avvenute su un territorio assai ristretto, nel quale l'inumazione era sempre in ritardo e, spesso, molto dopo il tempo stabilito e quasi mai alla profondità regolamentare.

In contrasto a ciò, è il momento di ricordare l'osservazione, macabra e singolare, quale si dedicarono, all'inizio del Secondo Impero, e con uno spirito assai differente, con la pazienza e la costanza d'un'altra epoca, i due celebri medici e tossicologi Mathieu-Joseph Orfila e Marie-Guillaume Devergie. Osservazione sulla lenta e progressiva decomposizione del corpo umano; ecco la fine dell'esperienza condotta, fino ad allora, nel fetore e nell'intensa proliferazione dei vibrioni:
"L'odore diminuisce gradualmente; alla fine si arriva ad uno stadio nel quale tutte le parti molli sono sparse sul suolo formando un ammasso fangoso, nerastro e con un odore che ha qualcosa di aromatico".
Per quel che riguarda la trasformazione del fetore in profumo, si deve notare la sorprendente somiglianza con quello che dichiararono gli antichi Maestri, a riguardo della Grande Opera fisica. In particolare due di essi, Morien e Raimondo Lullo precisano che dopo l'odore fetido (odor teter) della dissoluzione oscura, viene il profumo più soave, perché è il profumo delle proprietà di vita e calore (quia et vitae proprius est et caloris).

***

Dopo ciò che abbiamo abbozzato, non si deve forse essere timorosi, visto che già intorno a noi, al livello in cui siamo, possono influire alcune testimonianze contestabili od argomentazioni speciose? Propensioni deplorevoli che mostrano, invariabilmente, l'invidia e la mediocrità e di cui ci sentiamo in dovere di distruggere, oggi, gli effetti negativi e persistenti. Ci riferiamo con questo ad una rettifica assai obbiettiva del nostro Maestro Fulcanelli che studiava, al museo di Cluny, la statua di Marcello, vescovo di Parigi, statua che una volta era posta a Notre-Dame, sul pilastro mediano del portale di sant'Anna, prima che gli architetti Viollet-le-Duc e Lassus la sostituissero, verso il 1850, con una copia soddisfacente. Quindi l'Adepto del Mistero delle Cattedrali fu portato a correggere gli errori commessi da Louis-Francois Cambrici. Eppure costui avrebbe potuto esaminare la scultura originale, sempre al suo posto nella cattedrale, dall'inizio del XIV secolo, ed invece scrisse, sotto il re Carlo X, una breve e fastidiosa descrizione:

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 Oggetto del messaggio: Re: I misteri delle Cattedrali
MessaggioInviato: gio feb 28, 2008 01:53 
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«Questo vescovo porta un dito alla bocca, per dire a coloro che lo vedono e che sono venuti a conoscenza di ciò ch'egli rappresenta... Se riconoscete ed indovinate che cosa io voglio significare con questo geroglifico, tacete!... Non dite niente!» (Cours de Philosophic her-métique ou d'alchimie en dix-neuf lecons. Parigi, Lacour e Maistrasse 1843).

Nell'opera di Cambriel, queste righe sono accompagnate dallo schizzo inesperto che le ispirò o che fu da esse ispirato. Siamo del pa­rere di Fulcanelli quando egli afferma di non riuscire ad immaginare che due osservatori, cioè lo scrittore ed il disegnatore, siano stati vit­time, in due momenti diversi, dello stesso errore. Sul disegno stam­pato nel libro, il santo vescovo è barbuto, con evidente metacronismo, ha il capo coperto da una mitra decorata da quattro piccole croci e tiene, con la mano sinistra, un corto pastorale appoggiato alla spalla. Ed infine, imperturbabile, alza l'indice al livello del mento nell'espressivo gesto mimico del segreto e della raccomandazione di silenzio.
Nella sua conclusione Fulcanelli scrive: «Il controllo è facile perché possediamo l'opera originale e quindi l'inganno salta subito agli occhi. Il nostro santo è, secondo l'usanza medioevale, assoluta­mente glabro; la sua mitra, molto semplice, non ha nessun ornamento, il pastorale, tenuto dalla sua mano sinistra, appoggia la sua estremità inferiore sulla gola del drago. Per quel che riguarda il famoso gesto dei personaggi del Mutus Liber e di Arpocrate, esso esiste solo nel­l'eccessiva fantasia di Cambriel. San Marcello è rappresentato bene­dicente, in un atteggiamento pieno di nobiltà, con la fronte inclinata, l'avambraccio piegato, la mano all'altezza della spalla, l'indice ed il medio alzati».

* * *

Come s'è appena visto, la questione, che in quest'opera è l'ogget­to di tutto il paragrafo VII del capitolo PARIGI, era quindi comple­tamente risolta; ed il lettore, volendo, potrebbe prenderne visione per intero già da ora. Era stato sventato ogni inganno e la verità perfet­tamente chiarita, quando Emile-Jules Grillot de Givry, circa tre anni dopo, scrisse, nel suo Museo degli Stregoni, queste righe a proposito del pilastro di mezzo del portale sud di Notre-Dame:
Sfortunatamente, per quest'immagine, il presunto San Marcello non ha ancora il bastone episcopale di cui parla Grillot, decisamente fuori strada tanto da giungere fino ad un'impossibile esagerazione. Al massimo si può distinguere nella mano sinistra del prelato, beffardo e provvisto d'una fluentissima barba, una specie di grosso bastone, sprovvisto all'estremità superiore della voluta ornata che avrebbe potuto farlo diventare un pastorale ecclesiastico.

Evidentemente era importante che, dal testo e dall'illustrazione, si deducesse che questa scultura del XVI secolo - opportunamente inventata - fosse quella che Cambrici "passando un giorno davanti alla chiesa di Notre-Dame de Paris, esaminò con molta attenzione", dato che l'autore dichiara, proprio sulla copertina del suo Corso di Filosofia, che il libro fu terminato nel gennaio 1929. Così la descrizione ed il disegno, opera dell'alchimista di Saint-Paul-de-Fenouillet, trovano un credito e, nello stesso tempo, si completano restando nell'errore; mentre quell'irritante Fulcanelli, troppo scrupoloso, esatto ed onesto, era accusato d'ignoranza e di inconcepibile disprezzo. Invece, non è così facile concludere in questo modo; infatti lo si constata subito sull'illustrazione di François Cambrici, nella quale il vescovo porta, sì, un bastone accorciato, ma completo dell'abaco e della voluta a spirale.

***

Non ci fermiamo alla spiegazione di Grillot de Givry, assai ingegnosa ma un po' elementare dell'accorciamento della verga pastorale (virgo pastoralis); ed invece, non ci stanchiamo di denunciare questa stranezza, che egli. cioè, si voleva riferire evidentemente, ma senza nominarla espressamente! - innocentemente preciserà Jean Reyor, volendo significare che ciò era avvenuto in modo del tutto fortuito - alla pertinente correzione che sta nel Mistero delle Cattedrali; infatti è impossibile che una mente così sveglia e curiosa come la sua non ne sia venuta a conoscenza. Questo primo libro di Fulcanelli era in circolazione dal giugno 1926, mentre Il Museo degli Stregoni uscì nel febbraio 1929, con la data: Parigi, 20 novembre 1928; l'autore poi morì improvvisamente una settimana dopo la pubblicazione del libro.

A quell'epoca, questo fatto, che non ci sembrò del tutto onesto, ci turbò e ci sorprese lasciandoci sconcertati. Sicuramente non ne avremmo mai parlato se dopo Marcel Clavelle - alias Jean Reyor - recentemente Bernard Husson non avesse provato il bisogno inspiegabile, dopo trentadue anni, di rintuzzare il colpo e di venire alla riscossa. Riporteremo qui solo la tracotante opinione del primo, - pubblicata nel Voile d'Isis del novembre 1932, - perché il secondo se n'è appropriato interamente, senza neanche riflettere, e senza il più piccolo scrupolo: in verità, noi avremmo preferito che ne dimostrasse almeno un po' nei confronti dell'Adepto ammirevole, nostro comune Maestro:

"Tutti condividono la virtuosa indignazione di Fulcanelli! Ma ciò che è soprattutto riprovevole è la leggerezza dimostrata da questo scrittore in tale circostanza. Chiariamo adesso che non c'erano gli elementi per accusare Cambrici di "trucco", di "truffa" e di "impudenza".

"Verifichiamo punto per punto: il pilastro che attualmente si trova nel portale di Notre-Dame è una riproduzione moderna che fa parte del restauro degli architetti Lassus e Viollet-le-Duc, eseguito verso il 1860. Il pilastro originale è relegato nel Museo di Cluny. Però dobbiamo dire che il pilastro attuale riproduce assai fedelmente, nell'insieme, quello del XIV secolo, tranne qualche motivo decorativo del basamento. In ogni caso né l'uno né l'altro corrispondono alla descrizione e all'illustrazione pubblicate da Cambrici ed innocentemente riprodotte da un noto occultista. Eppure Cambrici non ha affatto cercato d'ingannare i suoi lettori. Egli ha descritto e fatto disegnare fedelmente il pilastro, quale lo potevano vedere tutti i Parigini del 1843. Ciò vuol dire che esiste un terzo pilastro di San Marcello, che è una riproduzione infedele del primo, ed è proprio questo pilastro che fu sostituito all'incirca nel 1860 con la copia più accurata ed esatta che oggi possiamo vedere. E quell'infedele riproduzione ha proprio tutte le caratteristiche segnalate dal bravo Cambrici. Egli non è assolutamente un truffatore, ma al contrario è stato ingannato da una copia poco scrupolosa, quindi la sua buona fede è del tutto fuori causa e questo è quello che più ci preme di stabilire".

***


Per meglio affermare la sua opinione Grillot de Givry - ti noto occultista di cui parlava Jean Reyor - nel suo Museo degli Stregoni mostra senza alcuna referenza, abbiamo già visto come, una prova fotografica la cui riproduzione lascia vedere la recente fattura. E, in fondo, quale può essere il valore esatto di questo documento di cui si servì come prova nel suo libro per rigettare, con tutta l'apparenza della irrefutabilità, il giudizio imparziale di Fulcanelli a proposito di François Cambrici; giudizio, forse, severo ma certamente ben fondato e che invece Grillot de Givry, come sappiamo, si guardò bene dal segnalare. Occultista nel senso assoluto, si mostrò altrettanto discreto per quel che riguarda la provenienza della sua sensazionale fotografia...

Non potrebbe forse essere successo, più semplicemente, che questa statua, che starebbe al posto di quella tolta nel secolo scorso all'epoca dei lavori di restauro di Viollet-le-Duc, fosse stata presa in un altro posto e non a Notre-Dame de Paris, e che quindi sia addirittura il ritratto d'un personaggio dell'antica Lutezio e non dell'arcivescovo Marcello?...
Nell'iconografìa cristiana numerosi santi sono raffigurati con il drago vicino, aggredente o sottomesso, e tra questi possiamo nominare: Giovanni Evangelista, Giacomo Maggiore, Filippo, Michele, Giorgio e Patrizio. Eppure, san Marcello è il solo che, col suo bastone, tocchi la testa del mostro, grazie al rispetto che pittori e scultori del passato ebbero sempre per la sua leggenda. Questa leggenda è molto ricca, e tra gli ultimi fatti della vita del vescovo si racconta questo avvenimento (Inter novissima ejus opera hoc annumeratur), riportato dal Padre Gerard Dubois d'Orléans (Gerardo Dubois Aurelianensi), nella sua Storia della Chiesa di Parigi (in Historia Ecclesiae Parisiensis) che noi adesso traduciamo dal testo latino riassumendo:

«Una dama, più illustre per nobiltà di nascita che per la sua condotta e la fama di buona reputazione, terminò i giorni che le erano destinati, poi dopo un pomposo funerale, come si conveniva, fu sepolta solennemente. Per punirla d'aver violato il letto nuziale, un serpente terribile s'avvicinò alla sepoltura della donna, si nutrì delle sue membra e del suo cadavere del quale aveva corrotto l'anima con i suoi funesti sibili. Esso non permette ch'ella si riposi nella sua tomba. Ma avendo sentito del rumore, i servi della donna defunta furono assai spaventati e cominciò ad accorrere la popolazione della città per guardare lo spettacolo, e molti erano allarmati alla vista dell'enorme animale...

«Il beato vescovo, avvertito, esce in mezzo al popolo, e ordina che i cittadini si fermino e restino a guardare. Egli stesso, sema timore, avanza verso il drago... che, come un supplicante, si prosterna davanti alle ginocchia del santo vescovo, sembra fargli le feste e chiedergli grazia. Allora Marcello, percuotendolo alla testa col suo bastone, gettò su di lui la sua stola (Tum Marcellus caput ejus baculo percutiens, in eum orarium1 (1 Orarium, quod vulgo stola dicitur (Glossarium Cangii). Orarium, ciò che generalmente è chiamato stola (Glossario di Du Cange) injecit); lo condusse poi in giro per due o tre miglia, seguito dal popolo; egli traeva (extrahebat) la sua marcia solenne davanti a tutti i cittadini. Poi si rivolse all'animale e gli comandò che d'allora in poi restasse sempre nel deserto o che andasse a gettarsi nel mare...».

Sia detto, di sfuggita, che non c'è neanche bisogno di sottolineare l'allegoria ermetica nella quale si distinguono la via secca e la via umida. Questo racconto combacia perfettamente col 50° emblema di Michele Maier nella sua Atalanta Fugiens, nel quale si vede un drago che avvinghia una florida donna, vestita e nella pienezza della maturità, che giace inerte nella sua fossa verosimilmente violata.

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 Oggetto del messaggio: Re: I misteri delle Cattedrali
MessaggioInviato: gio feb 28, 2008 01:54 
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Ma torniamo alla presunta statua di San Marcello, discepolo e successore di Prudenzio, che Grillot de Givry pretende sia stata messa, verso la metà del XVI secolo, sul pilastro mediano del portale sud, a Notre-Dame, cioè al posto dell'ammirevole originale, che è invece conservato sull'altra riva del fiume, al Museo di Cluny. Precisiamo che la statua ermetica è adesso conservata nella torre settentrionale della sua primitiva dimora.

Per poterci schierare nettamente contro l'affermazione in questione, priva d'ogni fondamento, possediamo l'irrecusabile testimonianza del signor Esprit Gobineau de Montluisant, gentiluomo di Chartres, tratta dal suo Explicatione très-curieuse des Enigmes et Figures hierogliphiques, physiques, qui sont au Grand Portail de l'Eglise Cathedrale et Metropolitaine de Notre Dame de Paris. Ed ecco, dal nostro testimone oculare, che «osserva attentamente» le sculture, la prova che il tutto tondo, trasferito in via Sommerard da Viollet-le-Duc, era sempre al suo posto, sul pilastro mediano del portale destro il «mercoledì 20 Maggio 1640, vigilia dell'Ascensione del nostro Salvatore Gesù Cristo»:

«Sul pilastro, c'è ancora l'immagine d'un Vescovo, che mette il suo Pastorale nelle fauci d'un drago, il quale è sotto i suoi piedi e sembra uscire dall'acqua, viste le onde che vi sono scolpite, e tra queste onde appare la testa d'un Re che ha una corona triplice, e che sembra annegare tra le onde e poi riemergere».

Questa storica descrizione, chiara e decisiva, non scosse Marcel Clavelle (pseudonimo di Jean Reyor), che però fu obbligato, per cavarsi d'impaccio, a trasferire sotto Luigi XIV, la nascita della statua sconosciuta, finché Grillot, improvvisamente, in buona fede o in malafede, non l'inventò addirittura. Probabilmente disturbato dalla medesima prova evidente, Bernard Husson non se la cava in modo migliore, proponendo, semplicisticamente che XVI secolo, a pag. 407 del Museo degli Stregoni, sia un refuso tipografico, ma per fortuna, corretto nella leggenda da XVII secolo, cosa che invece non è, come si è constatato prima.

***

E ancora, lasciando perdere l'esattezza, non significa torse inconcepibile irriflessione ammettere che un restauratore, all'epoca dei Valois, perseguendo una sua iniziativa, allo stesso tempo colpevole e singolare, abbia portato in un museo, inesistente ai suoi tempi, la magnifica statua? Essa invece si trova soltanto da poco più d'un secolo in una sala delle Terme, scoperte in seguito ad alcuni lavori di ricostruzione del bel palazzo opera di Jacques d'Amboise. E quanto sembra strano il seguito della storia; cioè che quell'architetto del XVI secolo abbia mostrato, nei riguardi di quella statua gotica ed imberbe, che egli avrebbe spostato, più cura nel conservarla, di quanto abbia mostrato lo scrupoloso Viollet-le-Duc, trecento anni dopo, per il vescovo barbuto, opera d'un suo lontano ed anonimo collega!

Che Marcel Clavelle e Bernard Husson, uno dopo l'altro, si siano scioccamente lasciati accecare dall'intenso piacere di cogliere in fallo il grande Fulcanelli, passi pure; ma che Grillot de Givry sin dall'inizio non abbia notato la monumentale illogicità della sua sconsiderata confutazione, è una cosa che non sì riesce a comprendere.
Quindi, il lettore sarà certo d'accordo con noi sul fatto che, in occasione della terza edizione del Mistero delle Cattedrali, era importantissimo che fosse chiaramente stabilita la fondatezza del rimprovero di Fulcanelli, nei riguardi di Cambrici e che, di conseguenza, fosse eliminato il pietoso equivoco creato da Grillot de Givry; o, se si preferisce, che fosse realmente e definitivamente chiarita una controversia che noi sapevamo tendenziosa e priva di un vero scopo.

Savignies, luglio 1964

Eugène CANSELIET

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 Oggetto del messaggio: Re: I misteri delle Cattedrali
MessaggioInviato: gio feb 28, 2008 01:56 
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IL MISTERO DELLE CATTEDRALI

La più forte impressione della nostra prima giovinezza, - avevamo sette anni, - quella della quale conserviamo ancora un vivido ricordo, fu l'emozione provocata dalla vista d'una cattedrale gotica al nostro animo fanciullo. Fummo immediatamente trasportati, estasiati, colmi d'ammirazione, incapaci di staccarci dall'attrazione del meraviglioso, dalla magia dello splendore, dell'immensità, della vertigine che si sprigionavano da quell'opera più divina che umana.

Da allora la visione si è trasformata, ma l'impressione è rimasta. E se la familiarità ha modificato il carattere primaverile e patetico di quel primo contatto, non abbiamo mai potuto impedirci di essere quasi rapiti in estasi davanti a quei meravigliosi libri figurati innalzati sui nostri sagrati e che dispiegano fino al cielo i loro fogli di pietra scolpita.
Con quali parole, con quali mezzi potremmo esprimere loro la nostra ammirazione, il sentimento di riconoscenza e tutti i sentimenti di gratitudine dì cui è colmo il nostro cuore per tutto ciò che essi ci hanno insegnato a gustare, a riconoscere, a scoprire, anche se essi non sono altro che dei muti capolavori, veri maestri senza parole e senza voce?

Senza parole e senza voce? - Cosa stiamo dicendo! Se questi libri di pietra hanno le loro pietre scolpite - frasi in bassorilievi e pensieri in ogive - non per questo non si esprimono per mezzo dello spirito imperituro che proviene dalle loro pagine. Libri più che chiari dei loro fratelli minori, - manoscritti e stampati, posseggono su di essi il vantaggio di tradurre un unico significato, assoluto e di facile espressione, dall'interpretazione ingenua e pittoresca, un significato purgato dalle sottigliezze, dalle allusioni, dagli equivoci letterari.

«La lingua di pietra parlata da questa nuova arte, dice assai veridicamente J. F. Colfs1 (1 J. F. Colfs, La Filiation généalogique de toutes les Ecoles gothiques. Parigi,Baudry,1884.), è contemporaneamente chiara e sublime. E quindi essa parla all'anima dei più umili come a quella dei più colti. Che lingua patetica il gotico delle pietre! Infatti è una lingua tanto patetica che le canzoni d'un Orlando di Lassus o di un Palestrina, la musica per organo d'un Haendel o d'un Frescobaldi, l'orchestrazione d'un Beethoven o d'un Cherubini e, ciò che è ancora più grande di tutto questo, il semplice e severo canto gregoriano, che è forse il solo vero canto, non si aggiungono che in sovrappiù alle emozioni che la cattedrale, da sola, produce. Guai a coloro ai quali non piace l'architettura gotica, o, per lo meno, compiangiamoli come persone che non hanno ereditato un cuore».

Santuario della Tradizione, della Scienza e dell'Arte, la cattedrale non dev'essere guardata come un'opera dedicata unicamente alla gloria del cristianesimo, ma piuttosto come un vasto agglomerato d'idee, di tendenze, di credo popolari, un insieme perfetto al quale ci si può riferire senza timore ogni volta che c'è bisogno di approfondire il pensiero degli antenati in qualsiasi campo : religioso, laico, filosofico o sociale.

Le volte ardite, la nobiltà delle navate, l'ampiezza delle proporzioni e la bellezza dell'esecuzione fanno della cattedrale un'opera originale, dall'armonia incomparabile, ma che non doveva essere completamente dedicata all'esercizio del culto.
Se, sotto la luce spettrale e policroma delle alte vetrate, il racco­glimento e il silenzio invitano alla preghiera e predispongono alla me­ditazione, in compenso l'apparato, la struttura e gli ornamenti, ema­nano e riflettono, con la loro straordinaria potenza, delle sensazioni i meno edificanti, uno spirito più laico e, diciamo pure il termine, quasi pagano.
Si possono discernere, oltre all'ardente ispirazione nata da una solida fede, le mille preoccupazioni della grande anima popolare, la affermazione della sua coscienza, della sua propria volontà, l'imma­gine del suo pensiero, di tutto ciò ch'esso ha di complesso, d'astratto, d'essenziale, di sovrano.

Se si va nell'edificio per assistere alle funzioni religiose, se si entra al seguito d'un corteo funebre o in mezzo all'allegro corteo d'una festa solenne, la calca è grande anche in ben altre circostanze. Si tengono delle assemblee politiche presiedute dal vescovo; si discute il prezzo del frumento e del bestiame; i tessitori stabiliscono il prezzo delle stoffe; si accorre anche per cercare conforto, per domandare con­siglio, per implorare perdono. E non ci sono corporazioni che non facciano benedire il capolavoro del nuovo confratello, che non si riu­niscano una volta l'anno sotto la protezione del loro santo patrono.

Durante tutto il bel periodo medioevale furono conservate anche altre cerimonie, assai gradite al popolo. C'era la Festa dei Pazzi - o dei Saggi, - «kermesse» ermetica processionale che partiva dalla chiesa col suo papa, i suoi dignitari, i suoi fedeli, il suo popolo - il popolo del medioevo, rumoroso, malizioso, scherzoso, pieno di tra­boccante vitalità, di entusiasmo e di foga - e si riversava in città... Ilare satira d'un clero ignorante, sottoposto all'autorità della Scienza nascosta, schiacciato sotto il peso d'una indiscutibile superiorità. Ah! La Festa dei Pazzi, col suo carro del Trionfo di Bacco, trainato da un centauro e una centauressa, ambedue nudi come il dio, che era accompagnato dal grande Pan; carnevale osceno che s'impossessava delle navate ogivali! Ninfe e naiadi uscenti dal bagno; divinità del­l'Olimpo, senza nubi e senza tutù: Giunone, Diana, Venere, Latona si davano appuntamento alla cattedrale per sentire la messa! E quale messa! Composta dall'iniziato Pierre de Corbeil, arcivescovo di Sens, secondo un rituale pagano, e durante la quale le fedeli dell'anno 1220 gridavano il grido di gioia dei baccanali: Evohè! Evohè! E gli sco­lari rispondevano con entusiasmo delirante:

Haec est darà dies clararum darà dierum!
Haec est festa dies fesTarum festa dierum!1
(1 Questo giorno è celebre tra Ì giorni celebri!
Questo giorno è giorno di festa tra i giorni dì festa!)


C'era anche la Festa dell'Asino, quasi altrettanto fastosa della precedente, con l'ingresso trionfale, sotto i sacri archetti, di Mastro Aliboron, il cui zoccolo, un tempo, calpestava la pavimentazione giudea di Gerusalemme. Si celebrava il nostro glorioso Cristoforo, con una funzione speciale con cui si esaltava, dopo l'epistola, quella potenza asinina che ha procurato alla Chiesa l'oro dell'Arabia, l'incenso e la mirra del paese di Saba. Era questa una parodia grottesca che il prete, incapace di comprendere, accettava in silenzio, con la fronte china sotto il peso del ridicolo sparso in abbondanza, da quei mistificatori del paese di Saba, o Caba, icabalisti in persona! È lo scalpello degli imaigiers2 (2 Letteralmente fabbricanti d'immagini. N.d.T.) del tempo, che ci da la conferma di quelle strane feste. Infatti, scrive il Witkowski3 (3 G. J. Wilkowski. L'Art profane à l'Eglise. Etranger. Parigi, Schemit, 1908, p. 35.) descrivendo la navata di Notre-Dame de Strasbourg, «il bassorilievo di uno dei capitelli dei gran di pilastri riproduce una processione satirica nella quale si distingue un maialetto che porta un'acquasantiera, seguito da alcuni asini vestiti in abiti sacerdotali e da scimmie che portano diversi attributi della religione ed anche da una volpe chiusa in gabbia. È la Processione della Volpe, o della Festa dell'Asino». Aggiungiamo che una scena identica, miniata, si trova al folio 40 del manoscritto n. 5055 della Biblioteca nazionale.

C'erano, infine, quelle bizzarre usanze dalle quali traspirava un significato (ermetico, talvolta molto puro; usanze che ogni anno si rinnovellavano ed avevano come teatro la chiesa gotica, tra esse la Flagellazione dell'Alleluia, nella quale i chierichetti spingevano, a gran colpi di frusta, i loro sabot4 5 (4 Trottola dal profilo di Tau o di Croce. Nella cabala, sabot equivale a cabot o chabot, lo chat bottè (gatto con gli stivali) dei Racconti di mia Madre l'Oca. La focaccia dell'Epifania talvolta contiene un sabot invece della fava. 5 Sabot: zoccolo N.d.T.) rumorosi fuori dalla navata della chiesa cattedrale di Langres; c'era poi il Convoi de Carême-Prenant; la DiablerIe de Chaumont; le processioni e i banchetti della Infanterie dijonnaise, ultima eco della Festa dei Pazzi, con la sua Madre Pazza, i suoi diplomi rabelaisiani, il suo stendardo sul quale due fratelli, uno a rovescio dell'altro, si divertivano a scoprirsi le natiche; e lo strano Gioco della Pelota che era giocato nella navata di Saint-Etienne, cattedrale d'Auxerre, e che scomparve, poi, verso il 1538; ecc...

II

La cattedrale è anche l’ospitale aisilo di tutti i disgraziati. I malati che venivano a Notre-Dame de Paris, per chièdere a Dio il lenimento delle loro sofferenze, vi restavano fino alla completa guarigione. Era assegnata loro una cappella, posta vicino alla seconda porta ed illuminata da sei lampade. Qui essi passavano la notte. I medici visitavano i malati, proprio all'ingresso della basilica, intorno all'acquasantiera. Ed è ancora là che la Facoltà di medicina, nel XIII secolo, dopo essere uscita dall'Università per vivere indipendente, venne a tenere le sue assemblee, stabilendovisi fino al 1454, data della sua ultima riunione, convocata da Jacques Desparts.

Essa è anche l'asilo inviolabile dei perseguitati e il sepolcro dei defunti illustri. È la città nella città, il centro intellettuale e morale del tessuto urbano, cuore dell'attività pubblica, apoteosi del pensiero, della scienza e dell'arte.
Con l'abbondante fioritura della sua decorazione, con la varietà dei soggetti e delle scene che l'adornano, la cattedrale si presenta come un'enciclopedia di tutto il sapere medioevale, perfettamente completa ed assai variata, talvolta ingenua, talvolta nobile, ma sempre vivente. Queste sfingi di pietra sono così degli educatori, degli iniziatori di prim'ordine.
Da secoli il guardiano di quest'ancestrale patrimonio è un vero e proprio popolo di irsute chimere, di buffoni. di figurine, di mascheroni, di minacciosi doccioni figurati - draghi, vampiri e tarasche1 (1 Specie di manichino raffigurante un animale mostmoso che veniva portato in processione alla Pentecoste in alcune città del Sud della Francia, in particolare a Tarascona N.d.T.)

L'arte e la scienza, un tempo concentrate nei grandi monasteri, fuggono dai laboratori, corrono all'edificio, si avvinghiano ai campanili, ai pinnacoli, agli archi rampanti, si sospendono alle volte, popolano le nicchie, trasformano le vetrate in gemme preziose, il bronzo in vibrazioni sonore e sbocciano sui portali con una gioiosa volata di libertà e di espressione. Niente di più laico dell'esoterismo di questo insegnamento! Niente di più umano di questa profusione d'immagini originali, viventi, libere, movimentate, pittoresche, talvolta disordinate ma sempre interessanti; niente di più commovente di queste innumerevoli testimonianze della vita quotidiana, del gusto dell'ideale, degli istinti dei nostri padri; e soprattutto, niente di più avvincente del simbolismo dei vecchi alchimisti, abilmente raffigurato dai modesti scultori di statue del medioevo. A questo proposito, Notre-Dame de Paris, chiesa filosofale, è, senza possibilità di smentita, uno dei i più perfetti prototipi del genere, come ha scritto Victor Hugo, «il più soddisfacente compendio di scienza ermetica, mentre la chiesa di Saint-Jacques-la-Boucherie ne era un geroglifico completo».

Gli alchimisti del XIV secolo si incontravano una volta alla settimana, nel giorno di Saturno, sia nel grande portico, sia al portale di San Marcello, oppure anche presso la piccola Porta Rossa, tutta decorata di salamandre. Denys Zachaire c'informa che questa usanza era ancora in vigore nel 1539, «di domenica e nei giorni festivi», mentre Noel du Fail dice che «il luogo di convegno di questi accademici era a Notre-Dame de Paris1 ». (1 Nöel du Fail, Propos mstiques, baliverneries, contes et discours d'Eutrapel (cap. X). Paris, Gosselin, 1842.)

E qui, nello splendore delle ogive dipinte e decorate2 (2 lle cattedrali tutto era colorato o dipinto di vivaci colori. Fa fede di questo il testo di Martirius, vescovo e viaggiatore armeno del XV secolo. Questo autore dice che il portico di Notre-Dame de Paris risplendeva come l'ingresso del paradiso. Vi si poteva ammirare il porpora, il rosa, l'azzurro, l'argento e l’oro. Sulla sommità del timpano del gran portale si possono ancora scorgere delle tracce di dorature. Il timpano della chiesa Saint-Germain-l'Auxerrois ha conservato la sua volta azzurra costellata d'oro.), dei costoloni delle volte, dei timpani dalle figure multicolori, ognuno illustrava il risultato dei suoi lavori, spiegava l'indirizzo delle sue ricerche. Si esprimevano delle probabilità; si discutevano le possibilità, si studiavano sul posto le allegorie del bel libro e la parte più animata di queste riunioni era certo l'astrusa esegesi dei simboli misteriosi.

Dopo Gobineau de Montluisant, Cambrici e «tutti quanti»1 (1 In italiano nel testo N.d.T.) gli altri, anche noi intraprendiamo il pio pellegrinaggio, per parlare alle pietre ed interrogarle. Ahimè! è ormai tardi. Il vandalismo di Sofflot ha distrutto gran parte di tutto quello che nel XVI secolo il soffiatore poteva ammirare. E, se l'arte deve essere riconoscente agli eminenti architetti Toussaint, Geoffroy Dechaume, BoeswillwaId, Viollet-le-Duc e Lassus, che restaurarono la basilica, odiosamente profanata dalla Scuola, la Scienza invece non ritroverà mai ciò che ha perduto.

Ma, comunque sia, malgrado queste incresciose mulilazioni, i motivi che ancora esistono sono ancora abbastanza numerosi tanto da non dover rimpiangere il tempo speso per una visita del luogo. Ci riteniamo, quindi, soddisfatti e largamente ricompensati del nostro sforzo se abbiamo potuto risvegliare la curiosità del lettore, soffermare l'attenzione dell'osservatore sagace e mostrare agli amanti dell'occulto che non è impossibile ritrovare il significato dell'arcano nascosto sotto il guscio pietrificato di questo prodigioso libro di magia.

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Quando la Morte verrà a prendermi, non vorrei essere qui


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 Oggetto del messaggio: Re: I misteri delle Cattedrali
MessaggioInviato: gio feb 28, 2008 01:59 
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III

Prima dobbiamo dire due parole sul termine (gotico, impiegato perl'arte francese che impose il suo stile a tutta la produzione del medioevo e la cui espansione si estende dal XII al XV secolo.
Alcuni pretendono, a torto, che questa parola derivi dai Goti, antico popolo della Germania; altri hanno creduto che questa forma d'arte venisse chiamata così, per la sua originalità e la nuovissima singolarità che fecero scandalo nel XVII e XVIII secolo e che quindi, per derisione, le fosse stato imposto un termine equivalente a barbara: questa è l'opinione della Scuola classica, imbevuta dei decadenti prìncipi del Rinascimento.

La verità, che è sulla bocca del popolo, è riuscita a mantenere e conservare l’espressione Arte gotica, nonostante gli sforzi dell'Accademia per sostituirle quella di Arte ogivale. Esiste in questo una ragioneoscura che avrebbe dovuto far riflettere i nostri linguisti sempre allaricerca dell'etimologia. Qual è, quindi, la ragione per cui pochissimi lessicologi si siano trovati nel giusto? - Perché la spiegazione dev'essere cercata nell'origine cabalistica della parola anziché nella sua radice letterale.
Alcuni autori perspicaci, e non superficiali, colpiti dalla similitudine che esiste tra gotico e gaelico hanno pensato che ci dovesse essere uno stretto rapporto tra Arte gotica e Arte gaelica o magica.

Per noi art gotique1 (1 Si è preferito lasciare qui e altrove, l'espressione arte gotica in lingua francese perché il lettore possa rendersi conto del gioco di fonetica che rende simili i termini «art gotique» e «argotique». In italiano infatti tale gioco sarebbe intraducibile. Sul significato del termine argot, Fulcanelli è molto esauriente qualche rigo più sotto N.d.T.) non è altro che una deformazione ortografica della parola argotique, la cui omofonia è perfetta, conformemente alla legge fonetica che regola la cabala fonetica in tutte le lingue e senza tener conto alcuno dell'ortografia. La cattedrale, quindi, è un capolavoro d'art goth o d'argot 2 (2 Anche qui la pronuncia delle due parole e la stessa N.d.T.).

Dunque i dizionari definiscono la parola argot come «il linguaggio particolare di tutti quegli individui che sono interessati a scambiarsi le proprie opinioni senza essere capiti dagli altri che stanno intorno». È, quindi, una vera e propria cabala parlata. Gli argotieri, quelli che si servono d'un tale linguaggio, sono i discendenti ermetici degli argonauti, i quali andavano sulla nave Argo, parlavano la lingua argotica, - la nostra lingua verde - navigando verso le fortunate rive della Colchide per conquistare il famoso Vello d'Oro. Ancor oggi si dice d'un uomo molto intelligente, ma anche assai scaltro: sa tutto, capisce l'argot. Tutti gl'Iniziati si esprimevano in argot, anche i vagabondi della Corte dei Miracoli, - col poeta Villon alla loro testa, - ed anche i Frimasons3 (3 Dall'inglese Free-mason (libero muratore), da cui derivano i corrispondenti termini in italiano ed in francese: frammassone e fran-maçon N.d.T.), o frammassoni del medioevo, «che costruivano la casa di Dio», ed edificavano i capolavori argotiques ancor oggi ammirati. "nche loro, i nautes costruttori, conoscevano la strada che portava al Giardino delle Esperidi...

Anche ai nostri giorni gli umili, i miserabili, i disprezzati, i ribelli avidi di libertà e d'indipendenza, i proscritti, i vagabondi ed i nomadi parlano in argot, dialetto maledetto, bandito dalla buona società, da quei nobili che non lo sono affatto, dai borghesi pasciuti e benpensanti, avvoltolati nell'ermellino della loro ignoranza e della loro fatuità. L'argon resta il linguaggio d'una minoranza d'individui che vivono al di fuori delle leggi codificate, delle convenzioni, degli usi, del protocollo, ad essi si applica l'epiteto di voyous, cioè di voyants1 (1 In italiano: teppisti e veggenti. Come si nota la radice dei termini francesi deriva dal verbo voir: vedere. In italiano questo doppio senso è intraducibile N.d.T.), e, quello ancor più espressivo, di Figli o Bambini del sole. Infatti, l'arte gotica è l’art got o cot, l’arte della Luce e dello Spirito.

Si potrebbe credere che questi siano soltanto dei giochi di parole. Noi ne conveniamo di buon grado. L'essenziale è che guidino la nostra fede verso una certezza, verso la verità positiva e scientifica, chiave del mistero religioso e non la mantengano, invece, errante nel labirinto capriccioso dell'immaginazione. Quaggiù non esistono né il caso né la coincidenza, né i rapporti fortuiti; tutto è previsto, ordinato e regolato, e non spetta a noi modificare a nostro piacimento la volontà imperscrutabile del Destino. Se il senso comune delle parole non ci permette nessuna scoperta capace di elevarci, d'istruirci, d'avvicinarci al Creatore, allora il vocabolario diventa inutile. Il verbo, che assicura all'uomo l'incontestabile superiorità e il potere sovrano, esercitato su tutti gli esseri viventi, perde, in questo caso, la sua nobiltà, la sua grandezza, la sua bellezza e diventa soltanto un'affliggente vanità. Ma la lingua, strumento dello spirito, vive di per sé, anche se è solo il riflesso dell'Idea universale. Noi non inventiamo nulla, non creiamo nulla.

Tutto è in tutto. Il nostro microcosmo non è altro che una particella, infima, animata, pensante, più o meno imperfetta del macrocosmo. Ciò che noi crediamo di scoprire con lo sforzo della nostra intelligenza esiste già da qualche altra parte. La fede ci da il presentimento di ciò che esiste; e la rivelazione ce ne da la prova definitiva. Spesso noi passiamo accanto al fenomeno o al miracolo, quasi lo tocchiamo, ma non lo vediamo neppure, come se fossimo ciechi e sordi. Quante meraviglie, quante cose insospettate potremmo scoprire se sapessimo sezionare le parole, romperne il guscio e liberare il loro spirito, la luce divina da esse racchiusa! Gesù si esprimeva solo con parabole; pos siamo noi negare la verità ch'esse ci insegnano? E, nella conversazione corrente, non sono forse i doppi sensi, le approssimazioni, i bisticci di parole o le assonanze che caratterizzano le persone di spirito, felici di poter sfuggire alla tirannia della lettera, e che si mostrano, quindi, a loro modo cabaliste senza saperlo?

Aggiungiamo, infine, che l’argot è una delle forme derivanti dalla Lingua degli Uccelli, madre e signora di tutte le altre, lingua dei filosofi e dei diplomatici. È quella lingua, appunto, della quale Gesù svela la conoscenza ai suoi apostoli, inviando loro il suo spirito, lo Spirito Santo. Essa insegna il mistero delle cose e svela le più nascoste verità. Gli antichi Incas la chiamavano Lingua di corte, perché era conosciuta dai diplomatici, ai quali forniva così la chiave d'una duplice scienza : la scienza sacra e la scienza profana. Nel medioevo era chiamata Gaia scienza o Gaio sapere, Lingua degli dei, Diva-Bottiglia1 (1 La vita di Gargantua e Pantagruel, di Francois Rabelais, è un'opera esoterica, un romanzo d'argot. In esso il buon curato di Meudon si rivela un grande iniziato e un cabalista di prim'ordine.). La Tradizione ci tramanda che gli uomini la parlavano prima della costruzione della torre di Babele2 (2 La perifrasi, il costrutto ba usato per bel. Anche qui c'è un gioco di cabala, intraducibile in italiano: la tour de Babel (la torre di Babele) diventa la tour de Ba bel N.d.T.), che fu causa della sua perversione, e per la maggioranza dei partecipanti fu anche causa del totale oblio del sacro idioma. Oggi, a parte l'argot, ritroviamo un po' di quell'antico carattere in alcune lingue locali come il piccardo, il provenzale, ecc., e nel dialetto degli zigani.

La mitologia vuole che il celebre indovino Tiresia3 (3 Si dice che Tiresia avesse perso la vista per aver svelato ai mortali i segreti dell'Olimpo. Eppure visse «sette, otto o nove volte il periodo di vita d'un uomo» e, alternativamente, sarebbe stato uomo e donna!) abbia conosciuto perfettamente la Lingua degli Uccelli che gli sarebbe stata insegnata da Minerva, dea della Saggezza. Insieme a lui, sarebbero stati a conoscenza di questa lingua anche Talete di Mileto, Melampo e Apollonio di Tiana4 (4 Filosofo la cui vita, ricca di leggende, miracoli e fatti prodigiosi, appare assai ipotetica. Il nome di questo personaggio quasi favoloso, ci sembra essere nient'altro che un'immagine mito-ermetica del compost, o rebis filosofale, realizzato mediante l'unione del fratello con la sorella, di Gabrizio con Beia, d'Apollo con Diana. Perciò, se le meraviglie raccontate da Filostrato, sono effettivamente riferite alla chimica, non ce ne stupiremo.) personaggi fittizi i cui nomi parlano eloquentemente della scienza che ci interessa, e così chiaramente che non abbiamo bisogno di analizzarli in queste pagine.

IV

Tranne qualche rara eccezione, la pianta delle chiese gotiche, cattedrali, abbaziali o conventuali, assume la forma di una croce latina stesa al suolo. Ma la croce è il geroglifico alchemico del crogiuolo, un tempo chiamato cruzol, crucibile e croiset1 (1 Termini intraducibili N.d.T.) (nel tardo latino, crucibulum, crogiuolo, ha per radice crux, crucis, croce, secondo Du Cange).
Ed è infatti proprio nel crogiuolo che la materia prima, come lo stesso Cristo, patisce la Passione; essa muore nel crogiuolo per risuscitare poi, purificata, spiritualizzata, già trasformata. Del resto il popolo, fedele guardiano delle tradizioni orali, non esprime forse il sacrificio terreno degli uomini con delle parabole religiose e delle similitudini ermetiche? - Portare la croce, salire il calvario, passare nel crogiuolo dell'esistenza, sono altrettante locuzioni correnti nelle quali ritroviamo lo stesso senso nascosto sotto lo stesso simbolismo.

Non dimentichiamo che intorno alla croce luminosa vista in sogno da Costantino apparvero queste parole profetiche, che egli fece dipingere sul suo labaro: In hoc signo vinces; con questo segno vincerai. Alchimisti, fratelli miei, ricordatevi anche che la croce reca l'impronta di tre chiodi che servirono ad immolare il Cristo-materia, immagine delle tre purificazioni che devono esser fatte col ferro e col fuoco. Parimenti meditate questo chiaro brano di sant'Agostino della sua Disputa con Trifone (Dialogus cum Triphone, 40) :

«Il mistero dell'agnello che Dio aveva ordinato di sacrificare a Pasqua, egli dice, rappresentava la figura del Cristo, quelli che credono in lui tingono col suo sangue le loro case, cioè se stessi mediante la fede che hanno in lui. Ora, quest'agnello, che la legge prescriveva di fare arrosto tutto intero, era il simbolo della croce che il Cristo doveva patire. Perché l'agnello, per essere arrostito, è disposto in modo da raffigurare una croce: uno degli spiedi di legno lo traversa da una parte all'altra, dall'estremità inferiore fino alla testa, l'altro spiedo attraversa le spalle e ad esso si legano i piedi anteriori dell'agnello (in greco: le mani).»

La croce è un simbolo molto antico, usato in ogni tempo; in qualsiasi religione, presso tutti i popoli, e sarebbe uno sbaglio considerarla come simbolo speciale del cristianesimo, come dimostra assai abbondantemente l'abate Ansault1 (1 Vedi: abate Ansault, La Croix avant Jésus-Christ, Paris V. Rétaux, 1894.). Diremo anche che la pianta dei grandi edifici religiosi del medioevo, con l'adozione di un'abside semicircolare o ellittica saldata al coro, segue perfettamente la forma del segno ieratico egiziano della croce ansata, che si legge ank, ed indica la Via universale nascosta nelle cose. Se ne può vedere un esempio nel museo di Saint-Germain-en-Laye, su di un sarcofago cristiano proveniente dalle cripte arlesiane di Saint-Honorat. D'altra parte, l'equivalente ermetico del segno ank è l'emblema di Venere o Cipride (in greco ……, l'impura), il rame volgare che alcuni altri, per nascondere ancora di più il senso, hanno tradotto con bronzo ed ottone. «Imbianca l'ottone e brucia i tuoi libri» ci ripetono tutti gli autori migliori. (parola greca) è lo stesso di (parola greca), zolfo, che significa ingrasso, sterco, letame, immondizia. Il Cosmopolita scrive: «II saggio troverà la nostra pietra perfino nel letame mentre l'ignorante non potrà neanche credere ch'essa esista nell'oro.»

Così la pianta dell'edificio cristiano, col segno della Croce, ci rivela la qualità della materia prima, e la sua preparazione; per gli alchimisti quest'indicazione termina con l'ottenimento della Prima pietra, pietra angolare della Grande Opera filosofale. Su questa pietra Gesù ha costruito la sua Chiesa; e i liberi muratori medioevali hanno seguito simbolicamente l'esempio divino. Ma prima che fosse tagliata, per servire di base per l'opera d'arte gotica così come per l'opera d'arte filosofale, questa pietra ancora grezza, impura, materiale e grossolana era lavorata per raffigurare l'immagine del diavolo.

Notre-Dame de Paris possedeva un geroglifico simile, che si trovava sotto la tribuna, all'angolo della clausura del coro. Era una statua del diavolo, che spalancava un'enorme bocca nella quale i fedeli venivano a spegnere i loro ceri; di modo che il blocco scolpito appariva sporco di gocce di cera e di nerofumo. Il popolo chiamava questa statua Mastro Pietro del Cantone, nome che è stato sempre incomprensibile agli archeologi. Questa figura, destinata a rappresentare la materia iniziale dell'Opera, umanizzata sotto le spoglie di Lucifero (che porta la luce, - la stella del mattino), era il simbolo della nostra pietra angolare, la pietra del cantone, la pietra maestra del cantone. «La pietra che i costruttori hanno scartato, scrive Amyraut2 (2 M. Amyraut, Paraphrase de la Première Epìtre de saint Pierre (capitolo II, v. 7). Saumur, Jean Lesnier. 1646, p. 27.), è diventata la pietra maestra d'angolo, sulla quale si basa tutta la struttura dell'edificio; ma essa è anche un ostacolo e pietra dello scandalo, contro la quale essi si scagliano andando incontro alla propria rovina.» Per quel che riguarda il taglio di questa pietra angolare - intendiamo qui la sua preparazione - lo si può veder interpretato in un bellissimo bassorilievo dell'epoca, scolpito all'esterno dell'edificio, su di una cappella absidale, dalla parte di via del Cloitre-Notre-Dame.

V

Mentre al tailleur d'imaiges 1 (1 Cesellatore, scultore d'immagini sacre N.d.T.) era riservata la decorazione delle parti elevate, al ceramista era attribuito il compito di ornare il pavimento delle cattedrali. Esso, generalmente, era lastricato o pavimentato mediante delle mattonelle di terracotta dipinte e ricoperte con uno smalto al piombo. Quest'arte aveva raggiunto nel medioevo una perfezione sufficiente ad assicurare ai soggetti istoriati una bastevole varietà di disegni e di colori.

Si usavano anche dei piccoli cubi multicolori di marmo alla maniera dei mosaisti bizantini. Tra i motivi usati più di frequente, è bene parlare dei labirinti, tracciati sul suolo nel punto d'intersezione della navata col transetto. Le chiese di Sens, di Reims, di Auxerre, di Saint-Quentin, di Poitiers, di Bayeux hanno conservato i loro labirinti. Nel labirinto di Amiens si notava, al centro, una grande lastra, nella quale era incastonata una sbarra d'oro e un semicerchio dello stesso metallo, che raffigurava l'alzarsi del sole sulla linea dell'orizzonte. Più tardi il sole d'oro fu sostituito da un sole di rame, poi spari anche quest'ultimo e non fu mai più rimesso a posto. Quanto al labirinto di Chartres, chiamato volgarmente la lega (sta per il luogo)2 (2 Anche questo è un esempio di cabala fonetica, Lieue (lega) e lieu (luogo) si pronunciano, in francese, allo stesso modo N.d.T.) e disegnato sul pavimento della navata, si compone di tutta una serie di cerchi concentrici che si ripiegano gli uni sugli altri con un'infinita varietà di combinazioni. Un tempo al centro di questa figura, si notava il duello tra Teseo ed il Minotauro. Questa è un'altra prova dell'infiltrazione dei soggetti pagani nella iconografia cristiana e di conseguenza è anche prova d'un senso mito-ermetico evidente. Però il problema non è di stabilire un qualsiasi rapporto tra queste immagini e le famose costruzioni dell'antichità: i labirinti di Grecia e d'Egitto.

Il labirinto delle cattedrali, o labirinto di Salomone, e, ci dice Marcellin Berthelot1 (1 Vedi: La Grande Encyclopedie. Voce: Labyrinthe. T. XXI, pag 703.), «una figura cabalistica che si trova anche sul frontespizio di alcuni manoscritti alchimici e che fa parte delle tradizioni magiche attribuite a Salomone. È una serie di cerchi concentrici, interrotti in certi punti, in modo da formare un percorso bizzarro ed inestricabile».

L'immagine del labirinto ci si offre dunque come emblema dell'intero lavoro dell'Opera, con le sue due maggiori difficoltà: quella della strada da seguire per raggiungere il centro, - nel quale si scatena il duro duello delle due nature, - e l'altra quella della strada che l'artista deve seguire per uscirne. A questo punto ha bisogno del filo d'Arianna se non vuole vagare tra i meandri dell'opera senza riuscire a scoprire l'uscita.

Non è nostra intenzione scrivere, come fece Batsdorff, uno speciale trattato per insegnare che cos'è il filo d'Arianna, che permise a Teseo di compiere la sua impresa. Ma appoggiandoci alla cabala speriamo di fornire agli investigatori sagaci alcune precisazioni sul valore simbolico del famoso mito.

Arianna è una forma di airagne (ragno), per metatesi della i. In spagnolo, la ñ si pronuncia gn; (parola greca) (araignée, airagne2 (2 Anche nella parola italiana ragno è evidente la derivazione dal greco. Qui abbiamo mantenuto tali e quali i termini di passaggio dal greco ai vari dialetti francesi, altrimenti intraducibili N.d.T.)) si può dunque leggere arahné, arahni, arahgne. La nostra anima non è forse il ragno che tesse il nostro corpo? Ma questa parola richiede ancora altre derivazioni. Il verbo ….. significa prendere, cogliere, trascinare, attirare; da esso deriva ….., ciò che prende, attira, coglie.

Quindi ….. è la calamità, la virtù rinchiusa in quel corpo chiamato dai saggi: nostra magnesia. Proseguiamo. Nel dialetto pro venzale, il ferro è chiamato aran e iran secondo le varie inflessioni. È l’Hiram massonico, il divino Ariete, l'architetto del Tempio di Salomone. I felibri chiamano il ragno aragno e iragno e anche airagno; i piccardi aregni. Accostate tutte queste parole al greco ……, ferro e calamita. Questa parola ha ambidue i significati. E non è tutto. Il verbo ….. significa l'alzarsi di un astro che esce dal mare: da esso deriva ….. (aryan), l'astro che esce dal mare, che sorge; …… o ariane è quindi l'Oriente, per la permutazione delle vocali. Inoltre, …. ha anche il significato di attirare; quindi ….. è anche: calamita. Se ora esaminiamo …….., da cui deriva il latino sidus sideris, stella, riconosceremo il nostro aran, iran, airan provenzale, il greco ….., il sole sorgente.

Arianna, ragno mistico, fuggita da Amiens, ha lasciato sul pavimento del coro soltanto la traccia della sua tela...
Ricordiamo rapidamente che il più celebre dei labirinti antichi, quello di Cnosso a Creta, che fu scoperto nel 1902 dal dottor Evans, di Oxford, era chiamato Absolum. A questo punto, faremo notare che questa parola è assai vicina a quella di Absolu1 (1 Assoluto N.d.T.), nome con il quale gli antichi alchimisti indicavano la pietra filosofale.

[Il resto alla prossima :)]

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 Oggetto del messaggio: Re: I misteri delle Cattedrali
MessaggioInviato: gio feb 28, 2008 17:51 
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VI

Tutte le chiese hanno l'abside rivolto verso sud-est e la loro facciata verso nord-ovest, mentre i transetti, che formano il braccio trasversale della croce, sono orientali nella direzione nord-est, sud-ovest. Questa orientazione è invariabile, deliberatamente voluta, in modo che i fedeli ed i profani entrando in chiesa da Occidente, avanzassero dritti verso il santuario con la faccia rivolta verso il luogo da cui sorge il sole, verso Oriente, la Palestina, culla del cristianesimo. Essi lasciano le tenebre e vanno verso la luce.

In seguito a questa disposizione, uno dei tre rosoni che ornano il transetto e il grande portico non è mai illuminato dal sole; è
il rosone settentrionale che s'irradia nella faccia del transetto sinistro. Il secondo fiammeggia al sole di mezzogiorno; è il rosone aperto alla estremità del transetto destro. L'ultimo s'illumina ai raggi colorati del sole che tramonta; è il grande rosone del portale, di gran lunga più grande, per estensione e per bellezza, dei suoi fratelli laterali. In questo modo, sul frontone delle cattedrali gotiche, si succedono i colori dell'Opera, secondo un processo circolare che va dalle tenebre, - rappresentate dall'assenza e dal color nero, - alla perfezione del colore rosso, passando per il color bianco, considerato come «una media tra il nero e il rosso».

Nel medioevo, il rosone centrale dei portici si chiamava Rota,la ruota. Ora, la ruota è il geroglifico alchemico del tempo necessario alla cottura della materia filosofale e, in seguito, rappresentò la cottura stessa. Il fuoco sostenuto, costante ed eguale che l'artista mantiene giorno e notte durante questa operazione, è chiamato, perciò, fuoco di ruota. Però, oltre al colore necessario alla liquefazione della pietra filosofale, c'è bisogno in più di un secondo agente, chiamato fuoco segreto o filosofico. È proprio quest'ultimo fuoco, risvegliato dal calore volgare, che fa girare la ruota e provoca i diversi fenomeni che l'artista osserva nel proprio vaso 1 (1 De Nuysement, Poème philosophic de la Verité de la Phisique Mineralle, in Traittez de l'Harmonie et Constilution generalle du Vray Sel. Parigi, Périer e Buisard, 1620 e 1621, p. 254.):

D'aller par ce chemin, non ailleurs, je t'avoue;
Remarque seulement les traces de ma roue.
Et pour donner partout une chaleur égalle,
Trop tost vers terre et del ne monte ny dévalle.
Car en montant trop haut le ciel tu brusleras,
Et devallant trop bas la terre destruiras.
Mais si par le milieu ta carrière demeure,
La course est plus unie et la voye plus seure 2.


(2 Ti confesso che io procedo per questa strada e non per un'altra; Nota soltanto le orme della mia ruota. / E per distribuire dappertutto un uguale calore, / Fai attenzione a non montare ne a discendere troppo, verso il cielo o verso la terra. / Perché montando troppo brucerai il cielo, / E andando troppo in basso brucerai la terra. / Ma se procederai nel giusto mezzo, / L'andamento è più regolare e la strada è più sicura (N.d.T.).

La rosa rappresenta, quindi, da sola la durata del fuoco e la sua azione. Per questa ragione i decoratori medioevali hanno cercato di tradurre, nei loro rosoni, i movimenti della materia eccitata dal fuoco elementare, come si può notare sul portale nord della cattedrale di Chartres, nei rosoni di Toul (Saint-Gengoult), di Saint-Antoine de Compiègne, ecc.. Nell'architettura dei secoli XIV e XV, la preponderanza del simbolo igneo, che caratterizza nettamente l'ultimo periodo dell'arte medioevale, ha fatto chiamare lo stile di quest'epoca: Gotico fiammeggiante.

Alcuni rosoni, emblemi dell'amalgama, hanno un senso particolare che sottolinea ancora di più le proprietà di questa sostanza che il Creatore ha firmato di sua mano. Questo magico sigillo rivela all'artista che la strada seguita è quella giusta e che la mistura filosofale è stata preparata canonicamente. Si tratta d'una figura radiale a sei punte (digamma), chiamata Stella dei Magi, che brilla alla superficie del compost1 (1 Fango dall'odore pestilenziale proveniente dalle impurità e da quella parte di zolfo dei filosofi che non s'è potuto amalgamare. Il compost si presenta sotto vari aspetti di diversi colori: marrone scuro, alla prima cottura; va poi verso il nero, il grigio ed anche il verde N.d.T.), cioè al di sopra della mangiatoia in cui riposa Gesù, il Bimbo-Re.

Tra gli edifici che ci mostrano i rosoni stellati a sei petali, - riproduzione del tradizionale Sigillo di Salomone2 (2 Il giglio delle convalli poligonale, chiamato comunemente Sigillo di Salomone, deve il suo nome allo stelo, la cui sezione è stellata, come il segno magico attribuito al re degli Israeliti, figlio di David.), - citiamo la cattedrale di Saint-Jean e la chiesa Saint-Bonaventure de Lyon (rosoni dei portali); la chiesa di Saint-Gengoult a Toul; i due rosoni di Saint-Vulfran d'Abbeville; il portale della Calenda nella cattedrale di Rouen; lo splendido rosone blu della Sainte-Chapelle, ecc...

Poiché questo segno è del massimo interesse per un alchimista, - non si tratta forse dell'astro che lo guida e gli annuncia la nascita del Salvatore? - sarà per noi un piacere riunire qui alcuni brani da testi che riferiscono, descrivono e spiegano la sua apparizione. Lasceremo al lettore la cura di stabilire tutti gli accostamenti più utili, di coordinare le varie versioni, di isolare la verità positiva che, in questi frammenti enigmatici, è mescolata all'allegoria della leggenda.

VII

Varrone, nel suo Antiquitates rerum humanarum, ricorda la leggenda d'Enea, che salva il padre ed i penati dalle fiamme di Troia e che giunge, dopo lunghe peregrinazioni, nei campi di Laurento1 (1 Secondo le regole della cabala si tratta di l'or enté (l'oro innestato).), termine del suo viaggio. Egli spiega così l'avvenimento:

Ex quo de Troja est egressus Aeneas, Veneris eum per diem quotidie stellam vidisse, donec ad agrum Laurentum veniret, in quo eam non vidit ulterius; qua recognovit terras esse fatales2 (2 Varro, in Servius, Aeneid, t. III, p. 386.). (Dopo la sua partenza da Troia, Enea vide tutti i giorni e durante il giorno la stella di Venere, fin quando non arrivò nei campi di Laurento, dove cessò di vederla, cosa che gli fece capire che quelle erano le terre designate dal Destino).
Ecco adesso una leggenda, estratta da un'opera che ha per titolo : Libro di Seth, riportata nei seguenti termini da un autore del VI secolo3 (3 Opus imperfectum in Mattheum. Hom. II unito alle Oeuvres de saint Jean Chrysostome, Patr. grecque. t. LVI, p. 637.):


«Ho udito alcune persone parlare d'una Scrittura che, anche se poco certa, non è contraria alla fede ed è anche una bella storia che merita d'essere udita. In essa si legge che esisteva un popolo, nell'Estremo Oriente, sulla riva dell'Oceano, che possedeva un Libro attribuito a Seth, nel quale si parlava della futura apparizione di questa stella e dei doni che si dovevano portare al Bambino; si considerava questa predizione come trasmessa da generazioni di Saggi, di padre in figlio,
«Essi scelsero dodici Saggi, tra i più sapienti del loro popolo e tra i maggiormente dediti all'osservazione dei misteri dei cieli, e si prepararono all'attesa di questa stella. Se qualcuno di questi Saggi moriva, un suo figlio od un parente prossimo, anch'esso in attesa dello stesso avvenimento, era scelto per sostituirlo.


«Nella loro lingua costoro erano chiamati Magi, perché glorificavano Dio in silenzio e a bassa voce.
«Ogni anno questi uomini, dopo la mietitura, salivano su di un monte che, nella loro lingua, si chiamava Monte della Vittoria; ed era un monte assai bello per i ruscelli e gli alberi che gli facevano corona; su questo monte si trovava una caverna ricavata nella roccia. Arrivati in cima, si lavavano, poi pregavano e lodavano Dio in silenzio per tre giorni; questa pratica era seguita ad ogni generazione, sempre nell'attesa che questa stella di felicità apparisse durante la loro generazione. E, finalmente, essa apparve, sul Monte della Vittoria, sotto le spoglie d'un piccolo bambino che mostrava la figura d'una croce; essa parlò loro, diede loro le istruzioni necessario ed ordinò di partire per la Giudea.

«Così la stella li precedette per due anni, e mai, durante il viaggio, venne a mancare il pane o l'acqua.
«Ciò che essi fecero in seguito è riportato più brevemente nel Vangelo.»


Secondo questa leggenda, d'epoca differente, la forma della stella sarebbe stata diversa1 (1 Apocryphes, t. II, p. 469.):

«Durante il viaggio, durato tredici giorni, i Magi non mangiarono né dormirono; né essi ne provarono il bisogno, e questo periodo sembrò loro che avesse la durata d'un giorno. Più s'avvicinavano a Betlemme, più la stella brillava con splendore; essa aveva la forma di un'aquila, che volasse per aria agitando le ali; al di sopra di essa c'era una croce.»

La leggenda seguente, che ha come titolo Fatti accaduti in Persia, al tempo della nascita di Cristo, è attribuita a Giulio l'Africano, cronista del III secolo, benché non si sappia a quale epoca essa appartenga realmente2 (2 Julius Africanus, in Patr. grecque. t. X, pp. 97 e 107.):

«L'episodio accadde in Persia, in un tempio di Giunone (parola greca), costruito da Ciro. Un sacerdote annuncia che Giunone ha concepito. — A questa notizia tutte le statue degli dei danzano e cantano. — Una stella scende dal cielo e annuncia la nascita d'un Bambino Principio e Fine. — Tutte le statue cadono bocconi. — I Magi annunciano che questo Bambino è nato a Betlemme e consigliano al re di mandare ambasciatori. — Allora appare Bacco ( parola greca), che predice che questo Bambino scaccerà tutti i falsi dèi. — Partenza dei Magi, guidati dalla stella. Giunti a Gerusalemme, essi annunciano ai sacerdoti la nascita del Messia. — A Betlemme, essi salutano Maria, e fanno dipingere da un abile schiavo, il suo ritratto col Bambino; questo ritratto viene poi messo nel loro tempio principale con questa iscrizione: A Giove mitra (parole greche, — al dio sole), al grande Dio, al re Gesù, l'impero dei Persiani fa questa dedica.»

«La luce di questa stella, scrive sant’Ignazio3 (3 Lettera agli abitanti di Efeso, c. XIX) di tutte le altre; il suo splendore era ineffabile, e la sua novità faceva si che tutti quelli che la guardavano erano colmi di stupore. Il sole, la luna e gli altri astri formavano il cuore di questa stella.»

Huginus a Barma, nella Pratica della sua opera1 (1 Huginus a Barma, Le Règne de Saturne changé en siècle d'or. Parigi, Derieu, 1780.), usa gli stessi termini per parlare della materia della Grande Opera sulla quale appare la stella: «Prendete della vera terra, egli dice, ben impregnata di raggi di sole, di luna e degli altri astri.»
Nel IV secolo, il filosofo Calcidio che, a detta di Mullachio, ultimo dei suoi editori, proclamava che si dovevano adorare gli dei della Grecia, gli dei di Roma e gli dei stranieri, ha mantenuto il racconto della stella dei Magi e la spiegazione che di essa fornivano i sapienti. Dopo aver parlato di una stella chiamata Ahc dagli Egiziani e che sarebbe stata foriera di disgrazie, aggiunge:

«C'è anche un'altra storia più sacra e venerabile, che attesta come, con il sorgere di una certa stella furono annunciate, non morti e malattie, ma la venuta d'un Dio venerabile, perché parlasse agli uomini e perché fosse d'aiuto alle miserie terrene. I più saggi tra i Caldei, avendo visto questa stella, da uomini bene esercitati alla contemplazione dei fenomeni celesti, viaggiarono di notte e cercarono, secondo quanto si dice, la nascita recente d'un Dio, ed avendo riconosciuto la maestà di questo Bambino, gli resero gli omaggi che si convenivano ad un Dio così grande. Cosa che a voi è nota più che ad ogni altro2 (2 Calcidio, Comm. in Timoeum Platonis, e. 125; sta nei Frag. philosophorum graecorum di Didot, t. II, p. 210. - Evidentemente Calcidio si rivolge ad un iniziato.).»

Diodoro di Tarso3 (3 Diodoro di Tarso, Du destin, sta in Photius, cod. 233; Patr. grecque, t. CHI, p. 878.) si mostra ancor più positivo quando afferma che «questa stella non era una di quelle che popolano il cielo, ma una certa virtù o forza (parola greca) urano-diurna (parola greca), che ha preso la forma d'un nastro per annunciare la nascita del Signore di tutti».
Vangelo secondo san Luca, II, v. da 1 a 7 :

« Ora, nella medesima contrada, si trovavano dei pastori che passavano la notte nei campi, vegliando a turno per far la guardia alle loro greggi. Ecco che si presentò loro un Angelo del Signore, ed una luce divina li avvolse, essi furono presi da grande spavento: ma l'Angelo disse loro:

«Non temete, perché io vi porto la Buona Novella fonte di grande gioia per tutto il popolo; oggi è nato per voi nella città di David un Salvatore che è il Cristo-Signore; e questo per voi sarà il segno: troverete un Bambino avvolto in panni e posto in una mangiatoia.

«Nello stesso istante la moltitudine della milizia celeste si unì all'Angelo, lodando Dio e dicendo: Gloria a Dio. nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà.»
Vangelo secondo san Matteo. II v. da 1 a 1 1 :


«Quando Gesù nacque a Betlemme, città di Giuda, al tempo del re Erode, giunsero dall'Oriente a Gerusalemme dei Magi, dicendo: Dove è Colui che è nato, re dei Giudei, perché noi abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti ad adorarlo?

«... Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, s'informò accuratamente sul periodo nel quale era loro apparsa la stella, e mandandoli a Betlemme, disse :


«Andate, informatevi esattamente sul Bambino e, quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinchè, anch'io, vada ad adorarlo.

«Essi dunque, dopo aver udito il re, se ne andarono; ed ecco che la stella che avevano visto in Oriente apparve nuovamente e li precedeva fino a quando non andò a posarsi sopra il luogo nel quale era il Bambino.


«Ora, vedendo la stella, essi si rallegrarono assai e, entrando nella casa, trovarono il Bambino con Maria, sua madre, e prosternandosi l'adorarono; poi aperti i loro forzieri, gli offrirono dei regali: oro, incenso e mirra.»

A proposito di fatti così strani e davanti all'impossibilità d'attribuirne la causa a qualche fenomeno celeste, A. Bonnetty1 (1 A. Bonnetty, Documents historiques sur la Religion dea Romains, t. II, p. 564.), colpito dal mistero che avvolge questi racconti, si chiede :

«Chi sono questi Magi e cosa si deve pensare di questa stella? È ciò che in questo momento si domandano i critici razionalisti ed altri ancora. È difficile rispondere a questa domanda perché il Razionalismo e l'Ontologismo, antichi e moderni, poiché estraggono tutte le loro conoscenze da se stessi, hanno fatto dimenticare tutti i mezzi mediante i quali gli antichi popoli dell'Oriente conservavano le tradizioni primitive.»

La prima menzione della stella la troviamo sulla bocca di Balaam. Costui sarebbe nato nella città di Pethor, sull'Eufrate, e viveva, dicono, verso l'anno 1477 a.C., in regione centrale dell'impero assiro, allora ai suoi inizi. Profeta o Mago in Mesopotamia, Balaam esclamava:

«Come potrei io maledire colui che il suo Dio non maledice? Come potrei dunque minacciare colui che Jehohav non minaccia? Ascoltate!... Io lo vedo, ma non adesso; io lo contemplo ma non da vicino... Sorge da Gìacobbe una stella e da Israele nasce un segno... » (Num., XXIV, 47).

Nell'iconografìa simbolica la stella serve ad indicare sia il concepimento che la nascita. Spesso la Vergine è rappresentata cinta da un'aureola di stelle. Quella di Larmor (Morbihan), fa parte d'un trittico molto bello sulla morte del Cristo e la sofferenza di Maria, — Mater dolorosa, — nel cielo della composizione centrale si possono vedere il sole, la luna, le stelle e la sciarpa di Iride, la Vergine, poi, tiene nella mano destra una grande stella, — maris stella, — epiteto dato alla Vergine in un inno cattolico.
G. J. Witkowski1 (1 G.J. Witkowski, L'Art profane à l'Eglise. Francia, Parigi, Schemit, 1908, p. 382.) ci descrive una vetrata assai curiosa, che si trovava vicino alla sacrestia, nell'antica chiesa, oggi distrutta, di Saint-Jean a Rouen. Questa vetrata raffigurava il Concepimento di san Romano.

«Suo padre. Benedetto, consigliere di Clotario II, e sua madre Felicita, erano distesi su di un letto, interamente nudi, secondo l'usanza che durò fino alla metà del XVI secolo. Il concepimento era rappresentato da una stella che brillava sulla coperta a contatto del ventre della donna... La cornice di questa vetrata, già strana per l'argomento principale trattato, era ornata di medaglioni nei quali si distinguevano, non senza sorpresa, le figure di Marte, Giove, Venere, ecc..., e perché non si avessero dubbi sulla loro iden tità, la figura di ogni divinità era accompagnata dal proprio nome.»

VIII

Come l'anima umana ha i suoi segreti recessi, così la cattedrale ha i suoi corridoi nascosti. Il loro insieme, (dal greco ……, nascosto) costituisce la cripta che si estende sotto il livello della chiesa).
In questo luogo basso e umido e freddo, il visitatore avverte una singolare sensazione che impone il silenzio: quella della potenza unita alle tenebre. Qui siamo nell'asilo dei morti, come nella basilica di Saint-Denis, necropoli degli illustri; come nelle Catacombe romane, cimitero dei cristiani. Lastre di pietre; mausolei di marmo. sepolcri; resti di storia, frammenti del passato. Un silenzio triste ed oppressivo riempie questi spazi coperti a volta. I mille rumori del di fuori, varie eco del mondo, non arrivano più fino a noi. Finiremo con l'arrivare alle caverne dei ciclopi? Siamo sulla soglia dell'inferno dantesco, o sotto le gallerie sotterranee, così accoglienti, così ospitali per i primi martiri? — Tutto è mistero, angoscia e paura in questo antro oscuro...

Attorno a noi, numerosi pilastri enormi, massicci, talvolta abbinati, innalzati sui loro basamenti larghi e smussati. Capitelli corti, poco sporgenti, sobri, tozzi. Forme rozze e povere, nelle quali l'eleganza e la ricchezza cedono il passo alla solidità. Muscoli spessi, contratti per lo sforzo, che si dividono, senza venir meno, il formidabile peso dell'intero edifìcio. Volontà notturna, muta, rigida, tesa in una perpetua resistenza contro la pressione. Forza materiale che il costruttore ha saputo ordinare e dividere, dando a tutte queste parti l'aspetto arcaico d'una mandria di elefanti fossili, saldati gli uni con gli altri, arrotolando i loro dorsi ossuti, scavando i loro ventri pietrificati sotto la spinta d'un carico eccessivo. Forza reale ma occulta che si attua in segreto, si sviluppa nell'ombra, agisce senza tregua nella profondità delle sostruzioni dell'opera. Questa è l'impressione predominante che il visitatore avverte percorrendo le gallerie delle cripte gotiche.
Un tempo, le camere sotterranee dei templi servivano come dimora per le statue di Iside, ed esse diventarono, al tempo dell'introduzione del cristianesimo in Gallia, quelle Vergini nere che il popolo, ai giorni nostri, circonda d'una venerazione tutta particolare. Del resto il simbolismo tra queste due raffigurazioni è lo stesso: le une e le altre mostrano sul loro basamento la famosa iscrizione: Virgini pariturae; alla Vergine che deve partorire. Ch. Bigarne1 (1 Ch. Bigarne, Considérations sur le Culle d'Isis chez les Eduens. Beaune, 1862.), ci parla di parecchie statue di Iside designate dallo stesso vocabolo. L'erudito Pierre Dujois ci dice: «Già nella sua Bibliografia generale dell'Occulto, il sapiente Elias Schadius aveva segnalato, nel suo libro De dictis Germanicis, un'iscrizione analoga: Isidi, seu Virgini ex qua filius proditurus est2 (2 A Iside, o alla Vergine dalla quale nascerà il Figlio.).

Queste icone, dunque, non avevano per nulla il significato cristiano, che comunemente viene loro dato, almeno dal punto di vista esoterico. Bigarne dice che Iside, prima della concezione è, secondo la teogonia astronomica, l'attributo di quella Vergine che parecchi monumenti, molto più antichi del cristianesimo, indicano col nome di Virgo paritura, cioè la terra prima d'essere fecondata, e che sarà ben presto rianimata dai raggi del sole. È anche la madre degli dei, come attesta una pietra di Dio: Matri Deum Magnae ideae». Il senso esoterico delle nostre Vergini nere non può esser meglio definito. Esse raffigurano, nella simbologia ermetica, la terra primitiva, quella che l'artista deve scegliere come soggetto della propria grande opera. È la materia prima allo stato di minerale, come e quando viene estratta dai filoni metalliferi, profondamente nascosta sotto la massa rocciosa. I testi ci dicono che è «una sostanza nera, pesante, friabile, fragile, che ha l'aspetto d'una pietra e può essere frantumata in piccoli pezzi proprio come una pietra». Sembra dunque normale che il geroglifico umanizzato di questo minerale abbia il suo stesso colore caratteristico e che gli si riservi come sede i luoghi sotterranei dei templi.

Ai nostri giorni, le Vergini nere non sono numerose. Ne citeremo alcune, che godono di gran celebrità. La cattedrale di Chartres sotto questo punto di vista è la più favorita; infatti ne possiede due, una, chiamata con l'espressivo nome di Notre-Dame-sous-Terre, è posta nella cripta, ed è seduta su di un trono il cui basamento reca l'iscrizione già nota: Virgini pariturae; l'altra si trova nella chiesa, è chiamata Notre-Dame-du-Pilier, occupa il centro di una nicchia piena di ex voto in forma di cuori che mandano raggi. Witkowski ci dice che quest'ultima è oggetto di devozione da parte d'un gran numero di pellegrini. «Un tempo, aggiunge questo autore, la colonna di pietra che gli fa da supporto era "scavata" dalle lingue e dai denti dei suoi focosi fedeli, come il piede di san Pietro, a Roma, o il ginocchio di Ercole, adorato dai pagani in Sicilia; ma per preservarla da quei baci troppo ardenti, la colonna fu avvolta, nel 1831, con un rivestimento in legno».

Chartres, con la sua Vergine sotterranea, è considerata la più antica meta dei pellegrinaggi. Un tempo c'era soltanto un'antica statuetta di Iside «scolpita prima di Gesù Cristo», come raccontano alcune antiche cronache locali. Però, l'immagine che possediamo ora data soltanto dalla fine del XVIII secolo, perché quella della dea Iside era stata distrutta non si sa quando, e sostituita con una statuetta in legno, che teneva il Bambino seduto sulle ginocchia, e che, a sua volta, fu bruciata nel 1793.

Quanto alla Vergine nera di Notre-Dame du Puy — le cui membra non sono visibili — ha la forma d'un triangolo, con il vestito che la cinge al collo e si allarga senza pieghe fino ai piedi. La stoffa è decorata con tralci di vite e di spighe di grano — allegorie del pane e del vino eucaristici — e lascia passare, all'altezza dell'ombelico, la testa del Bambino, incoronato altrettanto sontuosamente della madre.

Notre-Dame-de-Confession, celebre Vergine nera delle cripte di Saint-Victor a Marsiglia, ci mostra un bello specimen di statuaria antica, morbida, larga e grassa. Questa figura, piena di nobiltà, tiene nella mano destra uno scettro ed ha la fronte cinta da una corona a triplice fiorone (tav. I).
Notre-Dame de Rocamadour, meta d'un famoso pellegrinaggio, già frequentata nell'anno 1166, è una madonna miracolosa; la tradizione fa risalire la sua origine al giudeo Zaccheo, capo dei pubblicani di Gerico; questa statua sovrasta l'altare della cappella della Vergine, costruita nel 1479. È una statuetta di legno, annerito dal tempo, rivestita da una veste di lamine d'argento che consolidano i resti in legno ormai tarlati. «La celebrità di Rocamadour risale al leggendario eremita, santo
Amatore o Amadour, che scolpì in legno la statuetta della Vergine alla quale furono attribuiti parecchi miracoli.

Si racconta che Amatore era lo pseudonimo del pubblicano Zaccheo, convertito da Gesù Cristo; venuto in Gallia, avrebbe diffuso il culto della Vergine. Questo culto è molto antico a Rocamadour; però, la gran voga del pellegrinaggio data soltanto dal XII secolo1 (1 La Grande Encyclopédie, t. XXVIII, p. 761.).»
A Vichy si venera, da epoca molto antica, la Vergine nera della chiesa di Saint-Blaise, come testimonia Antoine Gravier, prete partigiano dell'indipendenza dei comuni nel XVII secolo. Gli archeologi datano questa scultura del XIV secolo e, poiché le parti più antiche della chiesa di Saint-Blaise, nella quale è posta, furono costruite solo nel XV secolo, l'abate Allot, segnalandoci questa statua, esprime il parere ch'essa un tempo facesse parte della cappella Saint-Nicolas, fondata nel 1372 da Guillaume de Hames.

Anche la chiesa di Guéodet, chiamata Notre-Dame-de-la-Cité, a Quimper, possiede una Vergine nera.
Camille Flammarion1 (1 Camille Flammarion, l'Atmosphère. Parigi, Hachette, 1888, p. 362.) ci parla d'una statua analoga ch'egli vide, nei sotterranei dell'Osservatorio, il 24 settembre 1871, due secoli dopo la prima osservazione termometrica, che fu fatta nel 1671. Egli scrive : « Il colossale edificio di Luigi XIV che eleva la balaustra della terrazza a ventotto metri dal suolo, scende nel sottosuolo con delle fondazioni che hanno la stessa profondità: ventotto metri. All'angolo d'una galleria sotterranea, si nota una Vergine, messa in quello stesso anno 1671, e dei versi incisi ai suoi piedi la invocano col nome di Notre-Dame di sottoterra). Questa poco conosciuta Vergine parigina, che impersonifica nella capitale il misterioso soggetto di Ermes, sembra che sia una replica di quella di Chartres, la Benedetta Signora sotterranea.
Ancora un particolare utile per l'ermetista. Nel cerimoniale prescritto per le processioni delle Vergini nere, venivano bruciati soltanto ceri di color verde.

Quanto alle statuette d'Iside, — parliamo di quelle che sono sfuggite alla cristianizzazione, — sono ancora più rare delle Vergini nere. Forse sarebbe utile ricercarne la ragione nell'alta antichità di queste icone. Witkowski2 (2 L'Art profane a l'Eglise. Op. cit., p. 26.) ce ne segnala una sistemata nella cattedrale Saint-Etienne, a Metz. «Questa figura in pietra di Iside, scrive l'autore, misura o m. 43 di altezza e o m. 29 di larghezza e proviene dal vecchio chiostro. La sporgenza di questo altorilievo era di o m. 18; rappresentava un busto nudo di donna, ma così magro che, per servirci d'un'espressione figurata dell'abate Brantóme, "non poteva mostrare altro che la carcassa "; la sua testa era coperta da un velo. Due mammelle asciutte pendevano dal suo petto, simili a quelle delle Diane di Efeso. La pelle era tinta di rosso, e il drappo che cingeva la vita era nero... Una statua analoga esisteva a Saint-Germain-des-Prés e a Saint-Etienne de Lyon.»

Tuttavia, il culto di Iside, la Cerere egiziana, era molto misterioso, e tale rimane anche per noi. Sappiamo soltanto che la dea era festeggiata solennemente, ogni anno, nella città di Busiris, e che le veniva sacrificato un bue. Ci dice Erodoto : «Dopo il sacrifìcio, uomini e donne, parecchie migliala, si danno dei grandi colpi. Per quale dio si stanno battendo, sarebbe, io credo, un'empietà dirlo.» I Greci, come gli Egiziani, mantenevano un assoluto silenzio sui misteri del culto di Cerere e gli storici non ci hanno appreso nulla che possa soddisfare la nostra curiosità. La rivelazione ai profani del segreto di queste pratiche era punito con la morte. Ascoltare la divulgazione era considerato un crimine della stessa gravita. Come per i santuari egiziani di Iside, così nei templi di Cerere era rigorosamente vietato l'ingresso a tutti coloro che non avevano ricevuto l'iniziazione. Eppure, le informazioni che ci sono state tramandate, sulla gerarchia dei grandi sacerdoti, ci autorizzano a pensare che i misteri di Cerere dovevano essere dello stesso tipo di quelli della Scienza ermetica. Infatti sappiamo che i ministri del culto si dividevano in quattro gradi: lo Ierofante, incaricato d'iniziare i neofiti; il Porta-fiaccola, che rappresentava il Sole; 1'Araldo, che rappresentava Mercurio; il Ministro dell'Altare, che rappresentava la Luna. A Roma le Cerealies si celebravano il 12 aprile e duravano otto giorni. Veniva portato in processione un uovo, simbolo del mondo, e ad esso venivano sacrificati dei maiali.

Abbiamo detto prima che Die, una statua che rappresentava Iside, era chiamata madre degli dei. Lo stesso epiteto era riservato a Rea o Cibele. Così le due divinità si rivelano parenti assai prossime, e noi saremmo piuttosto dell'idea di considerarle come espressioni diverse d'un solo e unico principio. Charles Vincens conferma questa opinione con la descrizione ch'egli fornisce d'un bassorilievo raffigurante Cibele, che, per secoli, è stato visto all'esterno della chiesa parrocchiale di Pennes (Bouches-du-Rhóne), con la sua iscrizione: Matri Deum. «Questo strano frammento, ci dice il Vincens, è scomparso soltanto intorno al 1610 ma è riprodotto in una incisione nel Recueil di Grosson (p. 20).» Analogia ermetica strana: Cibele era adorata a Pessinunte, in Frigia, sotto la forma di una pietra nera che si diceva essere caduta dal cielo. Fidia rappresenta la dea seduta su di un trono tra due leoni, essa ha sul capo una corona murale dalla quale scende un velo. Talvolta viene raffigurata mentre tiene una chiave e sembra che stia togliendo il velo. Iside, Cerere, Cibele: tre teste sotto lo stesso velo.[/b]

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Il destino è nelle nostre mani, ora tocca a noi scegliere...
Il Male è in noi, noi siamo il Male
Quando la Morte verrà a prendermi, non vorrei essere qui


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 Oggetto del messaggio: Re: I misteri delle Cattedrali
MessaggioInviato: gio feb 28, 2008 17:54 
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Iscritto il: mar gen 15, 2008 02:20
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IX

Terminati questi preliminari, dobbiamo adesso intraprendere lo studio ermetico della cattedrale e per porre un limite alla nostra ricerca prendiamo come tipo il tempio cristiano della capitale, Notre-Dame de Paris.
Certo il nostro compito è difficile. Non viviamo più al tempo di messer Bernardo, conte di Treviso, di Zachaire o di Flamel. I secoli hanno lasciato una traccia profonda sulla facciata dell'edificio, le intemperie hanno scavato rughe profonde, ma le distruzioni compiute dal tempo sono ben poca cosa se paragonate a quelle prodotte dai furori umani. Le rivoluzioni hanno inciso la loro impronta, incresciosa testimonianza della collera plebea; il vandalismo, nemico del bello, ha sfogato il suo odio con spaventose mulilazioni, ed anche i restauratori, sebbene ispirati dalle migliori intenzioni, non hanno sempre saputo rispettare ciò che gli iconoclasti avevano risparmiato.

Un tempo, Notre-Dame de Paris innalzava la sua maestà in cima ad una scalinata di undici gradini. Appena isolata, da uno stretto sagrato, dalle case di legno, dagli acuti pignoni disposti a piani in aggetto, essa guadagnava in arditezza ed in eleganza ciò che perdeva in massa. Oggi invece, e grazie all'arretramento, sembra più massiccia quanto più è distaccata, con i portici, i pilastri e i contrafforti poggianti direttamente a terra; i successivi rinterri, a poco a poco, hanno colmato il dislivello e finito con l'assorbirlo fino all'ultimo gradino.

In mezzo a quello spazio limitato, da una parte, dall'imponente basilica e, dall'altra, dal pittoresco agglomerato di piccoli alberghi ornati di frecce, spighe, banderuole, traforati dalle «boutiques» dipinte con le travi scolpite, con le burlesche insegne, scavati agli angoli di nicchie, ornate di madonne o di santi, fiancheggiati da torrette, da garitte di vedetta, da bertesche, in mezzo a questo spazio, dicevamo, era eretta una statua di pietra, alta e sottile, che teneva in una mano un libro e nell'altra un serpente. Questa statua faceva parte d'una fontana monumentale sulla quale si leggeva questo distico:

Qui sitis, huc tendas: desunt si forte liquores,
Pergredere, aeternas diva paravi! aquas.

O tu che hai sete, vieni qui: se per caso mancano le onde,
Per gradi, la Dea ha preparato le acque eterne.


Il popolo lo chiamava ora Signor Legris, ora Venditore di gris, Gran Digiunatore o Digiunatore di Notre-Dame.
Questi strani appellativi hanno ricevuto parecchie interpretazioni ma le espressioni popolari non sono state identificate dagli archeologi e così neppure la statua. La spiegazione migliore è quella che ci da Amédée de Ponthieu1 (1 Amédée de Ponthieu, Légendes du Vieux Paris. Parigi, Bachelin, Deflorenne, 1867, p. 91.), ed essa ci sembra tanto più degna d'interesse, perché l'autore, che non era assolutamente un ermetista, giudica senza pregiudizi e parla senza idee preconcette:
«Davanti a questo tempio, ci racconta parlando di NotreDame, s'innalzava un monalito sacro, reso informe dal tempo. Gli antichi lo chiamavano Febigene2 (2 Generato dal sole o dall'oro), figlio d'Apollo; il popolo lo chiamò più tardi Mastro Pietro, volendo così significare Pietra maestra, pietra di potere3 (3 È la pietra angolare della quale abbiamo parlato.); si chiamava anche messere Legris, allora gris significava fuoco e in particolare fuoco grisù, fuoco fatuo...

«Secondo alcuni, queste informi sembianze ricordano quelle d'Esculapio, o di Mercurio o del dio Termine4 (4 Termini erano dei busti di Ermete (Mercurio)); secondo altri sarebbero le sembianze di Archambaud, maestro di Palazzo sotto Clodoveo II, che aveva regalato il fondo sul quale era stato costruito l'Hôtel-Dieu; altri credevano di scorgere i tratti di Guillaume de Paris, che l'aveva innalzata contemporaneamente al portale di Notre-Dame; l'abate Leboeuf dice di vedervi la figura di Gesù Cristo; altri quella di santa Geneviève, patrona di Parigi.

«Questo monolito fu tolto nel 1748, quando fu allargata la piazza del Sagrato di Notre-Dame.»
All'incirca nello stesso periodo, il capitolo di Notre-Dame ricevette l'ordine di sopprimere la statua di san Cristoforo. Il colosso dipinto in grigio1 (1 Rinascimento N.d.T.), si addossava al primo pilastro di destra, entrando nella navata. Era stata eretta nel 1413 da Antoine des Essarts, ciambellano del re Charles VI. La si volle togliere nel 1772, ma Christophe de Beaumont, allora arcivescovo di Parigi, si oppose formalmente. Solo alla sua morte, nel 1781, la statua fu trainata fuori della città e spezzata. Notre-Dame d'Amiens possiede ancora il buon gigante cristiano che portò il Bambino Gesù, ma non deve essere sfuggito, neppure lui, alla distruzione perché, ora, fa corpo con il muro: è una scultura in bassorilievo. Anche la cattedrale di Siviglia conserva un san Cristoforo colossale e affrescato. Quello della chiesa di Saint-Jacques-la Boucherie fu distrutto insieme all'edificio e la bella statua della cattedrale d'Auxerre, datata 1539, fu distrutta dietro ordini precisi, nel 1768, solo qualche anno prima di quella di Parigi.

Per motivare queste decisioni, è evidente che c'era bisogno di ragioni più che solide. Sebbene sembrino ingiustificate, ci pare che la causa derivi dal significato simbolico ricavato dalla leggenda e condensato — certo troppo chiaramente — dalla rappresentazione. San Cristoforo, di cui Jacques de Voragine ci rivela l'antico nome: Offerus, il cui significato è, secondo la maggioranza, colui che porta il Cristo (dal greco ……..); ma la cabala fonetica svela un altro significato, adatto e conforme alla dottrina ermetica. Cristoforo sta per Crìsoforo: che porta l'oro (dal greco ……..). Si capisce meglio quindi l'alta importanza che, simbolicamente, è rivestita da san Cristoforo. Si tratta del geroglifico dello zolfo solare (Gesù) o dell'oro nascente, innalzato sulle onde mercuriali e poi portato, dall'energia propria di questo Mercurio, al grado di potenza posseduta dall'Elisir. Secondo Aristotele, il Mercurio ha come colore emblematico il grigio o il viola, cosa che in sé basta per spiegare perché le statue di san Cristoforo erano dipinte dello stesso colore. Un certo numero di vecchie incisioni, conservate nel Gabinetto delle Stampe della Biblioteca Nazionale, e che rappresentano il colosso, sono eseguite con un tratto semplice e di color bistro. La più antica di esse è del 1418.

A Rocamadour (Lot) si può ancora vedere una gigantesca sta tua di san Cristoforo, innalzata sul podio Saint-Michel, che precede la chiesa. Accanto si nota un vecchio forziere ferrato, sopra il quale è conficcato nella roccia e tenuto da una catena un grossolano mozzicone di spada. La leggenda vuole che questo frammento sia appartenuto alla famosa Duranda, la spada che il paladino Rolando spezzò aprendo la breccia di Roncisvalle. Comunque sia, la verità che sgorga da questi particolari è assai limpida. La spada che apre la roccia, la verga di Mosè che fa scaturire l'acqua dalla pietra di Horeb, lo scettro della dea Rea, con cui ella colpisce il monte Dindimo, il giavellotto d'Atalanta sono un unico e medesimo geroglifico di questa materia nascosta dei Filosofi, della quale san Cristoforo indica la natura e il forziere ferrato il risultato.
Ci dispiace di non poter dire di più sul magnifico emblema al quale era riservato il primo posto nelle basiliche ogivali. Di queste grandi raffigurazioni, gruppi ammirabili per l'insegnamento che contenevano, non ci resta nessuna descrizione precisa e dettagliata; essefurono fatte sparire da un'epoca decadente e superficiale, senza neanche la scusa d'una indiscutibile necessità.

Il XVIII secolo, regno dell'aristocrazia e del bello spirito, degli abati di corte, delle marchese imbellettate, dei gentiluomini con le parrucche, tempo benedetto dei maestri di ballo, dei madrigali e delle pastorelle alla Watteau, secolo brillante e perverso, frivolo e manierato che doveva finire nel sangue, fu particolarmente nefasto per le cattedrali gotiche.
Gli artisti, trascinati dalla grande corrente di decadenza che ebbe sotto François I il nome paradossale di Renaissance1 (1 Rinascimento. N.d.T.), incapaci d'uno sforzo creativo eguale a quello dei loro antenati, completamente all'oscuro della simbologia medioevale, si dedicarono alla riproduzione di opere bastarde, senza gusto né carattere, senza pensiero esoterico, invece di continuare e sviluppare l'ammirevole e sana creatività francese.

Architetti, pittori, scultori, preferendo la loro gloria a quella dell'Arte, si ispirarono agli antichi modelli contraffatti in Italia.
I costruttori del medioevo erano ricchi di fede e modestia. Artigiani anonimi di puri capolavori, essi costruirono per la Verità, per l'affermazione del loro ideale, per diffondere la nobiltà della loro scienza. Quelli del Rinascimento, invece, preoccupati soprattutto della loro personalità, gelosi del proprio valore, costruirono per rendere famoso il loro nome alla posterità. Il medioevo deve il proprio splendore all'originalità delle proprie creazioni; il Rinascimento deve la sua moda alla servile fedeltà delle sue copie. Là un pensiero, qui una moda. Da un lato, il genio; dall'altro, il talento. Nell'opera gotica, la tecnica resta sottomessa all'Idea: mentre nell'opera rinascimentale la tecnica domina e cancella l'Idea. L'una parla al cuore, al cervello, all'anima: è il trionfo dello spirito; l'altra si rivolge ai sensi: è la glorificazione della materia. Dal XII al XV secolo, povertà di mezzi ma ricchezza d'espressione; a partire dal XVI, bellezza plastica, mediocrità d'invenzione. I mastri medioevali seppero animare il comune calcare; gli artisti del Rinascimento lasciarono il marmo freddo ed inerte.

L'antagonismo di questi due periodi, nati da concezioni opposte, spiega il disprezzo del Rinascimento e la sua profonda ripugnanza per tutto quello che era gotico.

Un tale stato di spirito doveva risultare fatale all'opera del medioevo; e sono dovute proprio ad esso le numerosissime mulilazioni che oggi dobbiamo deplorare.[/b]

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Quando la Morte verrà a prendermi, non vorrei essere qui


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